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Cosa ce ne facciamo della poesia?

Cosa ce ne facciamo della poesia?

 

di Nicoletta Gramantieri

 

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Guardando, in biblioteca, lo scaffale che contiene i libri di poesia, o nell’attimo in cui una classe mi sciama davanti prima di accomodarsi sul tappeto verde, non riesco a evitare che risuonino in me alcune domande: perché leggo poesia ai bambini? Perché leggo poesia con i bambini? Cosa ce ne facciamo, della poesia?

Conosco la risposta a queste domande, la trovo nei discorsi dei critici e poete, nei saggi, la intravedo nel piacere di chi legge poesia e nelle parole di chi trasmette il piacere di leggerne. La domanda che mi pongo è un po’ da bibliotecaria che opera in un tempo storico preciso, in un paese preciso, con risorse precise e obiettivi stabiliti. È un interrogativo che riguarda il senso che storicamente, socialmente e forse anche politicamente posso rintracciare in questa attività per legarla agli scopi di una biblioteca pubblica, anzi di una biblioteca pubblica per bambine e bambini.

 

Ho sempre l’impressione che alla poesia ci si avvicini con cautela e che con cautela la si proponga ai piccoli. I libri dello scaffale di poesia in biblioteca hanno numeri di prestiti molto inferiori ai romanzi. Mi sembra invece che la poesia, proprio per il suo essere poco praticata nella quotidianità, abbia in sé le caratteristiche necessarie a fare vivere una esperienza che non rientra nell’ordinarietà.
Ci sono innumeri modi di proporre la poesia, occorre solo scegliere il tipo di esperienza che si vuole offrire.

 

In biblioteca, rivolgendosi a terze, quarte e quinte di scuola primaria, abbiamo scartato l’idea di avvalerci di qualche esperto che proponesse laboratori di scrittura “poetica” e abbiamo tentato di costruire una esperienza basata sul leggere e sull’ascoltare.
Ci piaceva il proposito di un incontro che non producesse nulla, da cui bambine e bambini uscissero senza avere niente di materiale in mano: ci pareva il modo migliore per valorizzare la pratica della poesia e dell’ascolto. Non che avessimo qualcosa in contrario a quella pedagogia “del fare” che da Freinet, da Don Milani, da Mario Lodi toccando anche Munari ha reso quotidiana e condivisa la frase “chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara”, e che ha contribuito a cambiare il modo di intendere l’educazione. Era anzi proprio per onestà nei confronti di quei grandi maestri e pionieri che ci sembrava necessario articolare una proposta considerando cosa ci circonda in questo inizio di secondo decennio del Ventunesimo secolo.

 

Che sia necessario “fare” è diventato una convinzione comune slegata, come succede spesso alle convenzioni comuni, da un pensiero o da una riflessione educativa. In biblioteca, ad esempio, abbiamo molte più adesioni ad attività definite laboratori – che prevedono cioè la costruzione di qualcosa – che ad attività di lettura ad alta voce: si tende a pensare che un’attività in cui bambine e bambini sono chiamati a fare sia più facilmente fruibile e più utile di una in cui siano chiamati ad ascoltare. Immagino che una simile valutazione sia indotta dalla necessità di verificare immediatamente l’utilità. Avere subito un oggetto, anche uno scritto, a testimonianza dell’esperienza vissuta mi rassicura sull’utilità di ciò che ho fatto: ho prodotto.

Di questo mi pare dica Marco Dallari nel suo Testi in testa quando mette in evidenza come, nel tempo in cui stiamo vivendo, sia molto più stimolato il pensiero simultaneo rispetto a quanto lo fosse in passato. Con pensiero simultaneo intende l’insieme dei processi mentali che si attivano nelle prove stimolo-risposta, come gli esercizi cognitivi basati su risposta a domanda immediata, nei videogiochi, nell’abilità di fare più cose insieme. Dallari definisce queste capacità destrezze dal fiato corto, capaci, cioè, di dare valore alla prontezza dello scatto, ma inadeguate a favorire l’attenzione e l’applicazione. Dallari nel suo testo sottolinea come i testi polialfabetici siano campo di messa in atto di pensiero sequenziale inteso come insieme di abilità mentali a lungo termine “legate alla capacità di decodificare e produrre pensiero e testualità secondo modelli inferenziali complessi e di lunga durata”. Lo stesso si può dire della poesia, ci dice Dallari, e del pensiero poetico. Non solo i pedagogisti, ma gli stessi poeti sottolineano questa capacità della poesia di contrastare la frenesia e il ricorso al fare.

 

Si tende a pensare che un’attività in cui bambine e bambini sono chiamati a fare sia più facilmente fruibile e più utile di una in cui siano chiamati ad ascoltare.

 

 

“Contro la fretta e l’ingordigia” scrive Chiara Carminati “prendiamoci il tempo calmo degli spazi bianchi, assaporando il loro silenzio forte e le vibrazioni di onde che ne nascono”. Mi capita, leggendo a bambine e bambini, di chiedere loro di abbassare la mano. Anche quando non faccio domande, anche quando chi legge è a metà di un verso, succede che qualcuno alzi la mano non riuscendo a trattenere il desiderio di intervenire e attivando quel tipo di pensiero e di reazione che Dallari sottolinea in modo così chiaro. Il tempo della poesia diventa quindi anche tempo faticoso di attesa, dilazione di un bisogno avvertito come immediato.

 

Se per i ragazzi di Don Milani lo sforzo era quello di procurarsi le parole necessarie a farsi riconoscere come diritto uno spazio d’intervento, oggi per molte bambine e bambini lo sforzo sta nel frenare un desiderio di intervenire sempre e comunque. Si potrebbe dire che forse il desiderio di partecipazione promosso dalla pedagogia del fare si è, nel corso dei decenni, mutato in bisogno di protagonismo.

 

Per ragionare attorno a questi mutamenti si può trovare sponda in un libro interessante, uscito da poco. Si tratta de Il paese leggero in cui Fausto Colombo, sociologo della comunicazione e della cultura, tenta di dare ragione dei cambiamenti che si sono verificati nel nostro paese dagli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta. Nel libro l’autore sostiene la tesi che sia necessario, per dar conto di tali cambiamenti, guardare l’immaginario inteso “come luogo di scambio e di transizione fra la realtà quotidiana di un contesto sociale e la cultura che la elabora”. Proprio attraverso l’immaginario è possibile verificare che “la frattura che segna la fine del decennio contestativo e partecipativo e l’inizio di quello dell’individualismo non è solo un rovesciamento”. Sembra trattarsi infatti più di un cambio di prospettiva, una traduzione inaspettata dei contenuti che hanno sostanziato gli anni Settanta. “La crescita dei consumi individuali può essere vista come il compimento del sogno egalitario; la diffusione dell’erotismo ‘casalingo’ come la vulgata della sperimentazione artistica e sociale della libertà sessuale; l’esaltazione dei nuovi miti della moda o della pubblicità come una rilettura delle istanze autoriali.” All’interno di un simile quadro possiamo pensare che anche il fare abbia cambiato di segno transitando il valore dal processo che rende partecipi al prodotto del processo stesso così come il senso attribuito alla partecipazione è slittato nel protagonismo.

 

Il tempo della poesia diventa quindi anche tempo faticoso di attesa, dilazione di un bisogno avvertito come immediato

 

Leggere poesia offre occasioni e possibilità varie e diverse. Leggendo poesia lascio spazio e voce a poeti e poete, riconosco la loro autorevolezza e accetto di praticare la via poetica che viene indicata. Rinuncio in qualche modo al mio protagonismo e accolgo la trasmissione di emozioni, stupori e scoperte. Ascolto e leggo senza che mi sia chiesto di produrre nulla. “Mettete via i quaderni e le penne” diciamo a bambine e bambini, “e anche la macchina fotografica” suggeriamo alle insegnanti. Mi metto nelle condizioni di ricevere qualcosa senza che le mie mani ne debbano avvertire il peso. Come avviene per gli scolari del maestro di Un mazzo di jolly di Morgenstern, un maestro che porge regali. Fra gli altri, un giorno, un pacco che contiene un libro, uguale per tutti e tutte: David Copperfield. Su ogni copia del libro una frase avverte che il libro è proprietà della scuola. I ragazzi e le ragazze protestano, sostenendo che non si tratti di un regalo. “Anche se questo libro non vi appartiene per legge” li apostrofa il maestro “diventa vostro dal momento in cui ve ne appropriate, vale a dire nel momento in cui lo leggete. Vi regalo la storia, i personaggi, le parole, le frasi, le idee, le emozioni di questo libro. Quando l’avrete letto diventerà vostro, per tutta la vita”. Non si tratta di contrapporre una esperienza a un’altra, ma di permettere a ragazze e ragazzi di praticarle entrambe, di affiancare alle attività che prevedono di mettersi in campo producendo, rendendo cioè visibile la propria soggettività, altre in cui non si debba dare un riscontro fattivo della situazione che si è vissuta.

 

C’è poi una reazione che la poesia produce e che io amo. Una bambina l’ha manifestata, una volta, in maniera esplicita affermando dopo una lettura: “È stato bellissimo. Non ho capito niente.” L’affermazione si affratella a quella del maestro del già citato libro di Morgenstern. A un bambino che protesta: “Ma non si capisce cosa vuol dire, maestro!” il maestro obietta: “Non bisogna capire sempre tutto. Bisogna ispirarsi.”
Altri non rendono il piacere provato con la precisione delle parole, ma è facile avvertire un cambio di attenzione quando chi ascolta o legge ad alta voce rinuncia a comprendere, a capire “cosa ci vuole dire il poeta” e si lascia permeare dai suoni, dai ritmi, dai silenzi.

 

Credo che Jakobson si riferisse a questo effetto quando scriveva che “la poesia preserva dall’automatismo e dalla ruggine le nostre formule di amore e odio, di rivolta e conciliazione, di fede e negazione”.
La poesia, considerava il grande linguista, contribuisce a non rendere automatico il rapporto fra concetto e segno. In poesia le parole non sono solo un rimando alla realtà, acquistano un loro proprio valore. Il fatto che il segno non si fonda con l’oggetto crea un’antinomia, un dinamismo che non rendono atrofica, paralizzata, la realtà, ma concorrono a tenerla viva alla coscienza. Il piacere che danno ritmo, suoni, silenzi costringe i piccoli a lasciare da parte ciò che pensano debba essere detto riguardo alla poesia e a destreggiarsi fra percezioni e significati inusuali e a volte insospettati.

 

In poesia le parole non sono solo un rimando alla realtà, acquistano un loro proprio valore

 

Succede, come scrive Bruno Tognolini, che la poesia rigeneri le parole: “Le parole dicono e dicono e “vogliono dire”. Ma a dire si stancano, e noi ci stanchiamo a sentire. La stanchezza del senso rende noi sordi e mute le parole. Parlano parlano, ma non “vogliono dire” più niente. Per far passare la stanchezza ci vuole riposo. Il riposo che rigenera le parole è di due tipi: silenzio e poesia”.
Succede così che bambine e bambini dopo un po’ si lascino andare a pose scomposte sul tappeto, che accompagnino il ritmo dei versi con movimenti del corpo, i suoni con accenni di movimenti della bocca, i silenzi con una attenzione tesa che fa sporgere loro il corpo in avanti e che dicano “cantacela ancora questa”, che vogliano poi loro “cantarla”, che non cerchino più di definire cosa sia la poesia, ma che pretendano di giocarla.

 

Il gioco, Freud lo sottolineava, “è l’occupazione preferita e più intensa del bambino.” Ne Il poeta e la fantasia possiamo leggere che nel gioco il bambino si comporta come il poeta prendendo sul serio quello che fa investendo rilevanti importi d’affetto e dando “a suo piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo”. Ecco che allora mi piace che su quel tappeto verde bambine e bambini incontrino le parole dei poeti. Mi sembra che in questo convegno i piccoli abbiano la possibilità di venire a contatto con contenuti che non trovano spazio nelle necessità di tutti i giorni, di indagare territori non raccontabili con la lingua quotidiana, di coltivare orti non ancora conosciuti. La lingua della poesia permette questo.

 

Il linguaggio poetico mi sembra possa nutrire quella capacità intenzionale di dare un senso e un valore alla propria vita

 

“Il poeta gioca con la lingua”, leggiamo in un bel saggio di Renzi, Come leggere la poesia, “e questo lo tradisce e gli fa mettere nelle parole quello che lui nemmeno sa”. In questo tradimento, in questa mancanza di coscienza prodotta dal gioco c’è la possibilità per tutte e tutti, poeti e lettrici di poesia, di tentare un oltre, un altrove. “È cominciata un po’ così anche per me”, ha scritto qualche tempo fa Giusi Quarenghi sulla rivista Hamelin. “Quando la tenerezza era tale che cacciava spine e pungeva, quando la bellezza arrivava a ferire e l’esserci pativa eccesso tanto di sottrazione quanto di esposizione, toccava a lei, nella forma delle poesie che avevo imparato a memoria. Ho cominciato da loro. (…) mi guidavano la mano, il pensare e il sentire, a vedere, mettere fuori di me per riprendere in me, a riconoscere, cogliere e fare segni – suoni e parole: prima dette, scritte poi, solo poi, ben poi (…)”.

 

Ecco, non ho trovato risposta alle mie domande, ma penso di poter dire che la poesia ha effetti collaterali che mi sembra interessante incentivare. Il linguaggio poetico mi sembra possa nutrire quella capacità intenzionale di dare un senso e un valore alla propria vita. Questa capacità, che si fonda e ha radici nella storia di ogni persona, che si costituisce attraverso le proiezioni nel futuro e trova nella categoria del possibile il suo punto di riferimento, mi sembra che abbia oggi particolare necessità di essere alimentata.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul n. 31 della rivista “Hamelin”, Nuovi tabù: l’infanzia.

 

 

Bibliografia

  • M. Dallari, Testi in testa, Erickson, 2012
  • C. Carminati, Perlaparola, Equilibri, 2011
  • F. Colombo, Il paese leggero, Laterza, 2012
  • S. Morgenstern, Un mazzo di jolly, Nord-Sud, 2007
  • R. Jakobson, Poetica e poesia. Questioni di teoria e analisi testuali, Einaudi, 1985
  • S. Freud, “Il poeta e la fantasia”, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, 1991
  • L. Renzi, Come leggere la poesia, “Il Mulino”, 1991, p. 25
  • G. Quarenghi, Che cos’è la poesia, in “Hamelin. Storie figure pedagogia”, n. 28, anno 11
  • G. M. Bertin e M. Contini, Costruire l’esistenza, Armando Ed., 1983