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Dal nostro inviato nel tempo

Dal nostro inviato nel tempo

di Nicola Galli Laforest

 

 

 

Il rapporto tra ragazzi e storia è sicuramente misterioso, e anzi sembra diventarlo sempre più: da un lato, la prima percezione è che si sia rapidamente divaricato, che il senso del tempo sia stato irrimediabilmente compromesso dalla spettacolarizzazione spinta e dalla fuga in un eterno presente; dall’altro il filtro di certe storie, libri, film, fumetti, videogiochi, produce, inattesa ma indubbia, grande attenzione, interesse, anche passione. Una dimensione dunque in bilico tra rifiuto e partecipazione, tra essere scoglio e grande risorsa didattica e immaginativa.
Sul raccontare la storia ai ragazzi non si può che pensare a Mino Milani, che se ne è occupato al meglio per tanti anni e in mille modi, con un’ottica tutta sua e con grande successo tra i lettori. Gli abbiamo chiesto qualche pensiero sui suoi lavori, e sull’oggi.

In quasi tutti i tuoi scritti hai mantenuto un equilibrio tra Storia e storie, tra fatti rigorosamente documentati e creazioni tue. Non c’è mai un intento direttamente didattico, ma sempre un diverso concetto di storia, basato su esperienza umana e avventura. La Storia è sfondo (e sempre accurato), l’Avventura il codice d’ingresso. Come sei arrivato a questa formula? Perchè pensi sia legittima, e anzi fruttuosa?

 

Perché lo penso? Vedi, quando incontro (anzi, incontravo, ma continuerò a usare il tempo presente) i ragazzi, non manco mai di rammentar loro che non sono nati per generazione spontanea, ma figli dei loro padri e via risalendo nel tempo, quindi nella storia, alla quale non possono sottrarsi, ne siano consapevoli o no. Mi guardano stupiti, perché credono (a ragione) che la storia sia quella materia scolastica che ad alcuni piace, ad altri no; però mi sembra che accettino l’idea d’essere quello che sono, perché venuti al mondo in un certo momento e non in un altro. Come accettano che i sentimenti fondamentali – paura coraggio amore odio gelosia invidia ammirazione eccetera – non siano cambiati probabilmente mai; e come pure accettano che l’eclissi in atto dei valori – amicizia socialità rispetto degli altri lavoro disciplina – eccetera, non li aiuti a vivere bene. Qualcuno mi chiede se tutto questo sia mai esistito e non sia invece una fantasia pedagogica, domanda pericolosa cui penso si possa rispondere soltanto indirettamente, citando cioè casi ed esempi. Che per tali citazioni si debba talvolta ricorrere alla storia, gli va bene. Sanno che il mondo è cambiato (fino a che punto non lo sa nessuno) però sentono che alla fine, malgrado tutto, tra gli adulti e i ragazzi di un tempo e quelli di oggi, moltissime sono le cose in comune. Quindi accettano di leggere le storie di storia: purché possano in qualche modo riconoscersi nei protagonisti. Questo può essere fruttuoso; e tutto quanto porti a un’onesta lettura è legittimo, penso.

Che ci si trovi in un Medioevo o a fine Ottocento, anche se si va nel futuro, o se si parla di fantarcheologia, nelle tue storie i particolari, le ambientazioni, i pensieri dei personaggi sono sempre accurati e fedeli. Oggi la tv, fi ilm, i libri e internet stanno in gran parte modificando il nostro sguardo sulla Storia, che è sempre più fiction, ma non dichiarata come tale. Il concetto di “verità storica” vacilla sotto il moltiplicarsi delle fonti, delle “verità false”, dello spettacolo. Solo un passaggio o c’è da prestare attenzione? E quali armi usare?

 

La verità storica è quella che gli storici possono ricostruire, sulla base di fonti (testimonianze, dirette, scritte o orali, documenti ecc.) giudicate vere o attendibili o probabili, che possono, a loro volta, venire smentite o modificate o contraddette nel tempo, col reperimento di altri documenti e così via. Va da sé che esistono diverse interpretazioni dei fatti e un modo particolare o addirittura tendenzioso di narrarli. In tutto questo lo spettacolo non ha parte, se non la sua, che molto coincide con la ricerca del successo. La storia è una cosa, alla fine, per la solita minoranza colta e, aggiungo io, liberale.
Del resto, la verità storica corre lo stesso rischio di tutte le altre, cioè di non essere quella assoluta, ricordi Rashomon di Kurosawa? Sappiamo da tempo che, banalmente sui giornali, ognuno cerca la sua verità, non quelle di altri. D’una cosa sono invincibilmente persuaso: che se narrare e dire bugie è quasi sempre la stessa cosa, quando si tira in ballo la Storia, ai ragazzi non si debba mentire, almeno quando non si raccontino fiabe. Le bugie le puoi dire agli adulti, più pronti generalmente a scoprirle o a gradirle o a respingerle. È questo solo un passaggio, o c’è da prestare attenzione?, mi chiedi. Non è un passaggio, è un arrivo, è una cosa consolidata e irrimediabile.
Quanto alle armi, ce ne era una sola da usare, l’istruzione, per non dire la cultura. Costavano troppo, prendevano troppo tempo, non sono state usate. Ora è tardi, mi spiace ammetterlo e per questo ho scritto che ce ne era. Oggi occorre puntare sulla minoranza e lasciar perdere il resto. Perché dar libri a chi non vuole leggere?

Sei stato indubbiamente il pilastro principale del Corriere dei Ragazzi, una rivista molto coraggiosa al tempo e addirittura incredibile oggi. Una rivista d’avventura, ma la cui anima era il rapporto con la Storia, la cronaca, l’attualità, sentite dalla direzione come elementi  capaci di interessare e catturare giovani lettori e lettrici. La percezione che abbiamo oggi è esattamente opposta. A cosa attribuire questa sensazione? Conseguenza del cambiamento dei tempi, della società, dei ragazzi e delle ragazze? Errore di sottovalutazione?

 

Sì, tutto è cambiato ma, temo, nel senso che ha prevalso la presunzione: quella cioè che il nostro tempo sia il migliore, anzi che i più intelligenti, i più avveduti, i più capaci d’affrontare il futuro, insomma i migliori mai venuti al mondo siamo noi; che non c’è problema che non sarà risolto: scienza e tecnologia sistemeranno tutto e, vedrete, subito o quasi. E intanto siamo qui a non sapere come liberarci dal millenario raffreddore e dalle millenarie guerre di religione.

Dici che oggi storia, cronaca e attualità non riescono a interessare e a catturare i ragazzi? Della storia abbiamo già detto, ma cronaca e attualità li interessano e li catturano ancora. Non vedi come trepidano per la Ferrari o per Valentino Rossi, come sono pronti a fotografare, col loro cellulare, scene raccapriccianti o solo scabrose, per poi dividerle con gli amici? Non è questo, d’altra parte, quanto interessa e cattura anche gli adulti? E non è quello che i grandi poteri (un esempio, la cosiddetta Unione Europea) stanno tentando di ottenere, un gregge di gente che consumi, si conformi, obbedisca e si occupi intensamente di banalità e dimentichi la Storia? E al proposito, perbacco, resistenza ora e sempre.
Sospetti un errore di sottovalutazione? Sottovalutazione di che, del programma del remoto Corriere dei Ragazzi, o dei ragazzi stessi? Nel primo caso, no, la scelta della rivista era coerente e credo giusta; nel secondo, se mai, può esservi un errore contrario, di sopravalutazione cioè delle possibilità (capacità) dei ragazzi di oggi (quelli che leggevano il CdR sono ormai adulti e fisiologicamente lo rimpiangono). Che cosa pretendiamo da loro? Che comincino a capire tutto, a distinguere tutto, che giudichino e scelgano, che abbiano la precisa percezione del loro (nostro) mondo? Via. Rispettiamo i loro sogni, i loro errori; sogniamo un po’ di più e tentiamo, se possibile, di sbagliare di meno. Magari anche d’azzardare di tanto in tanto un colpo d’ali. Quanto al fatto che io sia stato il pilastro del CdR, non lo so, qualcuno lo dice. So d’averci lavorato molto e con molta gioia, questo sì.

Per il CdR ti sei inventato  rubriche o  serie di grande fascino e immediato successo, rese in immagini dai più grandi illustratori e fumettisti: penso a Dal nostro inviato nel tempo, I grandi nel giallo, La parola alla Giuria, Uomini contro e Uomini Pro. Ci racconti qualcosa? Come sceglievi i personaggi (da Elena di Troia a Marilyn, da Giotto a Custer…) e le storie?

 

Raccontare qualcosa di quello? Brevissimamente, però, a non correre il rischio di parlare di me. Li vedo da lontano, ormai, quel tempo e quel lavoro. Erano entrambi belli, richiedevano intensità, convinzione, fantasia; ti chiamavano a esprimere quanto sapevi, a riprodurre in storia parole e immagini quanto forse avevi sognato di vivere. Mi permettevano di giocare con i personaggi che m’avevano intrigato, affascinato, irritato, e tutto quanto si può pensare. Sono contento di averli vissuti, quei tempi; e pochi sceneggiatori, credo, debbono, come me, avere avuto la fortuna di collaborare con i più grandi illustratori e fumettisti, hai detto bene.

Hai riscritto o dilatato dei miti, e ti sei permesso di inventare, partendo da alcune tracce, momenti della vita di personaggi della storia e del nostro immaginario come Garibaldi o San Rocco. È un possibile altro modo per fare Storia?

 

Ah sì, credo di sì. Da secoli i miti vengono riscritti e dilatati, e anche per questo resistono e restano sempre attuali. E un protagonista della Storia, esse maiuscola, non può non esserlo anche della leggenda; entrambe le cose, se lealmente raccontate, contribuiscono a fare conoscere il personaggio e magari addirittura a farlo amare. Se io amo Garibaldi e amo San Rocco, perché non proporli all’amore di altri? Allo scopo, trovo legittima anche l’invenzione di episodi o di situazioni: sempre che sia coerente ai personaggi, dichiarata come immaginaria e non fatta passare per verità. È un modo possibile non per fare storia, ma per raccontarla.

 

 

Questa intervista è stata pubblicata sul numero 27 della rivista “Hamelin”, Storia e storie, del 2011.