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L’adolescenza nei fumetti per ragazze e ragazzi

L’adolescenza nei fumetti per ragazze e ragazzi

di Emilio Varrà

 

©Charles Burns, Black Hole, Coconino Press

©Charles Burns, Black Hole, Coconino Press

Si sa che raccontare l’adolescenza è impresa insidiosa, sempre a rischio di scadere nella mimesi giovanilistica o nell’exemplum di cronaca. Il fatto è che l’adolescenza, al pari dell’infanzia ma con caratteristiche diverse, pone un problema di rappresentazione, perché è portatrice di un’alterità difficilmente raccontabile, ma che non si può non affrontare per cercare di essere credibili.
In altre parole, non basta avere personaggi di quell’età o trame che disegnano percorsi di formazione per poter ottenere un buon risultato, bisogna lavorare sul medium, sul linguaggio a disposizione.

Ritorno al mito

Può essere allora utile, per giudicare i nuovi romanzi a fumetti, ritornare ad alcuni classici contemporanei che sono riusciti a cogliere il mistero segreto di quell’età ma soprattutto a essere in qualche modo esempi di metodo. Black Hole di Charles Burns  diventa in quest’ottica un paradigma importante, perché afferma con forza una delle strade possibili: il ritorno al mito. L’atmosfera oscura e morbosa di questo capolavoro, insieme al tema di una malattia che si propaga per via sessuale tra ragazze e ragazzi condannandoli a una deformità sempre diversa e a una marginalità sociale incontrovertibile, ha troppo spesso fatto dimenticare il nucleo vitale di quest’opera.

 

Burns, pienamente consapevole di voler fare della rappresentazione dell’adolescenza il nucleo del proprio racconto, decide di muoversi su una narrazione che utilizza incongruità, salti temporali, sogni e visioni, come a dire che per darne un ritratto veritiero non è possibile rimanere legati al realismo. La fiaba, il mito, la metafora diventano gli strumenti privilegiati perché si muovono per scarti e per analogie, rifiutano la linearità e la continuità. I suoi adolescenti non sono vittime di un morbo misterioso e di una esclusione sociale che li rende mostri, sono mostri a prescindere, perché in qualche modo sono l’unico possibile legame con gli dèi, con una presenza del sacro che per forza “eccede” la realtà e li rende deformi agli occhi di chi non può capire. La loro eccedenza è quella del monstrum inteso nell’accezione originaria, di creatura eccezionale e da ammirare, ma troppo ingombrante per il mondo adulto. Naturale allora che trovino rifugio nel bosco, quasi un ritorno alla sostanza primigenia della fiaba, al luogo dove ancora tutto è possibile, abitato da un nero che sarebbe riduttivo considerare nelle sue connotazioni dark, perché è più universale, è l’Ombra, il Mistero, l’Origine.

 

©Daniel Clowes, Ghost World, Fantagraphics Books

©Daniel Clowes, Ghost World, Fantagraphics Books

Trovare il ritmo

Ghost World di Daniel Clowes trova invece una strada diversa, non è interessato al mito, anzi proietta i suoi personaggi in quel momento cruciale dell’adolescenza in cui si esita sulla soglia di una resa alla realtà.
Anche in questo caso è facile fermarsi a una prima lettura: la quotidianità di due ragazze alle prese con la desolazione della provincia americana e con un vuoto di prospettiva futura totalizzante.

 

Certamente è anche un ritratto generazionale questo, ma ciò che più conta è l’universalità con cui riesce a mostrare la continua discrepanza, l’attrito quasi, tra realtà interiore ed esteriore. E ancora una volta è questione di linguaggio: Van Sant nel suo Elephant aveva trovato il rallenty con cui gli studenti attraversavano i corridoi della scuola a indicare una diversa andatura tra adolescenti e resto del mondo. In Ghost World sono le tavole piene, con i personaggi tallonati da inquadrature ravvicinate, dai margini delle vignette, dalla dimensione ingombrante dei balloon che quasi le schiacciano, dalla quantità di parole. Questo senso di oppressione, che spinge l’occhio del lettore a cercare un po’ di respiro, è in realtà una forma di protezione. Fino a quando si riuscirà a protrarre il cicaleccio delle due protagoniste, i loro battibecchi o i commenti sarcastici nei confronti del misero spettacolo di chi passa loro accanto, si eviterà il silenzio. Fino a quando si occuperà lo spazio della propria vignetta, con i vestiti, le acconciature diverse, la messa in scena di sé, si potrà dire di esistere. Dove il fumetto fa più male è nei rari momenti in cui l’inquadratura si allontana, si sente il vuoto attorno, i balloon scompaiono, il paesaggio ingloba le figure e non è più possibile portare avanti la recita, la realtà inghiotte il palcoscenico. L’adolescenza è sempre una questione di stare dentro o fuori, e Ghost World è il racconto di due sentinelle, e di una strenua quanto vana resistenza sulla soglia.

 

Non mi sei mai piaciuto di Chester Brown chiude questo trittico di esempi, vero e proprio paradigma per tante narrazioni successive. Non certo per quello che accade, ovvero la crescita e il progressivo isolazionismo del protagonista, dichiaratamente l’autore stesso, in un paesino canadese. Quello che qui conta è il ritmo, perché uno dei modi per raccontare l’adolescenza è trovare la cadenza. Anche in questo caso, come per Burns, abbiamo un andamento frantumato, che procede per segmenti, ma se in quel caso si aveva l’impressione che i pezzi potessero comporre un geroglifico, magari incomprensibile ma depositario di un mistero che appartiene solo a certi anni della vita, qui abbiamo detriti. Piccole vignette galleggiano sul fondo nero della pagina e si accostano ogni volta in maniera diversa, come alla ricerca di una forma che non si può trovare, e non riescono mai davvero a combaciare l’una con l’altra.

 

La loro distribuzione nello spazio diventa battito: sequenze di vignette disegnano una certa continuità e “accordano” il lettore a una certa temporalità, ma essa contrasta con ciò che viene dopo, un episodio di pochissime immagini o spesso una sola figura che riaffiora dal nero per inabissarsi di nuovo. Proprio in questo procedere sempre per false partenze si ritrova il “tempo dell’adolescenza”, dove conta più l’ellisse, il non detto, la crepa, il silenzio: tutte forme di esitazione che ci restituiscono la vera epica di quell’età: un procedere a tentoni, tra affondi e ritirate, gruppo e solitudine, dove il vero eroismo non sta nello slancio sfrontato, ma nell’ostinazione, ogni volta, di rialzarsi e riprovare.

 

 

In questo articolo parliamo di:

  • Chester Brown, Non mi sei mai piaciuto, Black Velvet 1999
  • Charles Burns, Black Hole, Coconino Press 2007
  • Daniel Clowes, Ghost World, Coconino Press 2008