di Piero Schiavo
Questo articolo è tratto dal numero 50 di “Hamelin”, Stavo pensando: albo e filosofia
Vorrei vederla sciogliersi, dissolversi questa sagoma nera, emblema del mio peso.
So di essere altro, un puro spirito.
Attenta ad inciampare.
– M.L. Spaziani
Le ombre sono un tema squisitamente filosofico, tanto perché battezzate in tal senso da Platone nel celebre mito della caverna, quanto perché danno avvio a tutta una serie di domande metafisiche e gnoseologiche – si definiscono come essere o come assenza? Qual è lo statuto d’essere di qualcosa che non è? In quale modo possiamo intenderle esistenti, se le consideriamo come privazione? – arrivando persino a innescare, come vedremo, il domandare medesimo. Ecco qui alcune considerazioni che possono scaturire da un tema così ricco e così variegato, talora persino contraddittorio, in relazione ad alcuni albi per l’infanzia.
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Che il tema dell’ombra sia contraddittorio lo dimostrano due racconti di autori antichi: l’uno, già citato, è il mito della caverna contenuto nel libro VII de La Repubblica di Platone; l’altro, forse meno conosciuto, è invece narrato nel Naturalis historia (XXXV, 15 e 43) di Plinio il Vecchio.
Nel primo caso, come è noto, le ombre sono un’immagine imperfetta della realtà: non soltanto una copia di essa, ma addirittura la proiezione di una sua copia, l’immagine di un’immagine, qualcosa perciò di ancor più lontano dal vero. Esse sono infatti prodotte da “oggetti d’ogni genere e statuette di uomini e di altri animali di pietra, di legno, foggiate nei modi più vari”, fatte scorrere davanti a una fiamma da alcune persone nascoste da un muretto, così da rendere l’inganno ancor più credibile per gli uomini dentro la caverna, incatenati in maniera tale da non poter girare indietro il capo e quindi da non poter svelare il perverso meccanismo illusorio.
Le ombre, insomma, allontanano dalla conoscenza vera, offrono anzi una conoscenza ingannevole che per di più asservisce l’uomo.
Plinio, invece, racconta di una giovane corinzia, Butade, che, per conservare l’immagine del suo amante che doveva partire per un’altra città, ne fissa su un muro il profilo dell’ombra del viso. Sarebbe stato poi il padre di Butade, partendo dalle linee di tale contorno, a imprimere sull’argilla un modello che riproducesse un ritratto capace di consolare la figlia dell’assenza dell’amato.
In questo caso l’ombra, pur restando una copia, diviene l’immagine più fedele al modello originale, ancor più fedele di qualsiasi artefatto creato dalla mano dell’artista, il quale non a caso parte proprio dall’ombra del giovane per realizzarne il ritratto.
Plinio, dunque, esalta l’ombra come origine dell’arte e le riconosce uno statuto di mimesis tutt’altro che ingannevole.
Ombra, identità, alterità
L’ombra di Giulia, un’ombra da bambino, come ci avverte il titolo dell’albo Storia di Giulia che aveva un’ombra da bambino, di Christian Bruel, presenta in sé la medesima duplicità.
L’ombra spaventa, sembra ingannare mostrando un’immagine falsata del modello – un’ombra maschile per un soggetto femminile – tale che o non la si può vedere (la madre di Giulia), o non la si vuole vedere (Giulia stessa). Lo straniamento e la paura della bambina crescono pagina dopo pagina (“le ombre mangiano la luce?” chiede a un certo punto Giulia alla mamma), fino a generare il desiderio di annientamento della propria ombra attraverso espedienti fantasiosi e ovviamente fallimentari, perché l’ombra “è sempre lì”, a ricordare a Giulia chi è.
“E se avesse ragione l’ombra?”, si domanda quasi rassegnata la bambina, arrivando così persino a rovesciare il rapporto modello/ immagine e a credere alla verità unica e univoca della seconda, come gli uomini nella caverna di Platone. L’ombra, in effetti, ha ragione; ma non come inganno o trasfigurazione della verità. Semmai, come suo completamento.
Essa mostra, non nasconde; paradossalmente, rivela ciò che non si vede (ciò che è, appunto, nell’ombra, o relegato in essa) e restituisce a Giulia l’immagine più fedele di se stessa, sebbene la bambina fatichi a riconoscerlo. La bambina e l’ombra sono quasi la stessa cosa: la seconda non è altro rispetto alla prima, ma parte della stessa identità.
Viene perciò meno lo sdoppiamento differenziante tra modello e immagine, come suggerisce l’illustrazione di chiusura della storia, un’illustrazione in cui si vede Giulia camminare senza la sua ombra, come se questa fosse stata in qualche modo assimilata.
L’ombra, dunque, nasconde e rivela. Essa insinua in Giulia un’identità ancora indefinita e tutta da scoprire, dando così avvio al questionarsi della bambina su se stessa.
La domanda di chi ricerca (un senso, o un’identità) nasce da un sospetto, da un dubbio che innesca la curiosità. Occorre presumere un inganno, poca chiarezza, una zona oscura (torna il lessico della luce e delle ombre), per attivarsi nell’indagine sulla verità.
È proprio il margine di indefinitezza o di deformazione dell’ombra ad innescare la domanda da cui prende avvio la ricerca, in questo caso del sé. La luce, l’Essere, direi anche il riflesso, non sono interrogativi, ma assertivi.
Lo specchio non lascia margini all’indefinito e quindi alla scoperta: mostra ogni cosa per com’è, non allude; dichiara e attesta, non interroga; risponde perlopiù a una ricerca, non la apre.
Lo specchio è luce piena, che appiattisce in un certo senso l’immagine perché ne riduce il potenziale euristico. L’ombra, al contrario, dà spessore e profondità alle cose, allo stesso modo in cui nelle arti figurative essa viene utilizzata per dare l’illusione di un rilievo, ossia della terza dimensione, consentendo in tale maniera una mimesis più efficace rispetto alla sola operazione “riflettente”.
Non solo. Proprio in quel suo margine di indefinitezza, di deformazione e di differenza si inserisce la possibilità della scoperta di ciò che è diverso da me, e quindi Altro-da-me. Già Lacan parlava di uno stadio dello specchio, che riguarda l’identificazione dell’io, e di uno stadio dell’ombra, che riguarda l’identificazione dell’Altro. L’ombra non mi restituisce la perfetta immagine di me, già soltanto perché non mi rende i miei colori e perché è facilmente deformabile; essa mostra perciò un me vagamente diverso, un Altro-da-me, che può essere anche un Altro-in-me, come nel caso di Giulia.
La dicotomia ombra/riflesso e alterità/identità, con tutti i corollari appena accennati, trova una geniale espressione in due albi di Suzy Lee divenuti ormai classici: Mirror e Ombra, per l’appunto.
Nel primo albo le iniziali e del tutto normali reazioni della bambina dinanzi alla sua immagine riflessa non sono che l’espressione del processo di riconoscimento di sé, di un’oggettivazione dell’Io nell’immagine sullo specchio che è vista sì come doppio, ma un doppio identico e perfettamente mimetico. Il conflitto tra le due bambine scoppia quando lo specchio smette di essere specchio riflettente e diviene specchio deformante, acquistando un’autonomia quasi provocatoria.
Il suo cessare di riprodurre fedelmente il modello – come dovrebbe invece fare in quanto specchio – genera dispetto nella bambina proprio perché è violazione di un Io che, in quanto ben consapevole di sé fino a un attimo prima in virtù dell’evidenza del suo riflesso, non accetta storpiature dall’identico.
In Ombra, invece, la deformazione è gioco: è perciò arricchimento, non tradimento.
Il concetto di ombra come Altro si connota anche qui di uno dei caratteri spesso associati alle ombre e al mondo dell’oscurità, così come al nostro rapporto con il diverso: la paura. Il lupo-ombra, l’Altro, spaventa la bambina e la costringe a rifugiarsi tra le ombre. Ma lo stesso lupo, a sua volta, verrà spaventato da un “mostro di ombre” a cui danno vita tutte le altre ombre, tra cui quella della bambina, unendosi l’una all’altra. L’Ombra, così come l’Altro – o proprio in quanto Altro – fa paura. Tuttavia, suggerisce la stessa Suzy Lee, con l’ombra la riconciliazione è più facile che non con il riflesso, proprio perché non si ha a che fare con un’identità tradita, ma con un’alterità che in parte ci forma: la bambina e/è l’ombra.
L’ombra del resto, a differenza del riflesso, resta ineludibilmente attaccata al suo soggetto-fonte: su qualsiasi superficie si proietti, la mia ombra mantiene sempre un punto di contatto con me. E, sempre a differenza del riflesso, l’ombra può subire modifiche, intermittenze e deformazioni indipendentemente dalla volontà del soggetto al quale appartiene, a dimostrazione che il nostro legame con essa trascende l’intenzionalità, ed è perciò un legame profondo, quasi essenziale, tale che in molte culture, come già ci insegnava Frazer, essa è considerata una sorta di omologo dell’anima.
Non è possibile, insomma, separarsi dalla propria ombra, pena la perdita della propria identità, il divenire nessuno. Lo impara a sue spese Peter Schlemihl, il personaggio del ce- lebre racconto di Chamisso: dopo aver venduto al diavolo la sua ombra in cambio di ricchezza, Peter viene rifiutato e temuto dalla società e non riuscirà più ad essere se stesso. Mentre Paul Tichlorne, uno dei protagonisti de L’ombra e il bagliore di Jack London, egregiamente illustrato da Fabian Negrin, ricorda al suo avversario che per quanti sforzi faccia per conquistare l’invisibilità attraverso pigmenti speciali, la sua ombra lo tradirà sempre e lui si troverà comunque “a fare i conti con l’ombra”.
Ombra e luce
Ancor più forte è il legame tra l’ombra e la luce, l’indissolubilità del quale è dovuta all’interdipendenza e alla reciprocità essenziale dei contrari, per i quali – insegna Eraclito – “la vita dei primi è la morte dei secondi, la vita dei secondi è la morte dei primi”.
Siamo soliti pensare che senza la luce non si possa vedere nulla: in una stanza totalmente buia, in effetti, non vediamo nessun oggetto, non vediamo nemmeno noi stessi. Tuttavia, sebbene non appaia così immediato, anche senza le ombre non riusciamo a vedere: in una realtà di sola luce, infatti, gli oggetti sembrerebbero fluttuare nell’aria e perderebbero ogni consistenza e spessore. Per poter vedere sono dunque necessarie entrambe, perché la visione è possibile soltanto in virtù del loro legame dialettico, come suggerisce Hegel in un passo della Scienza della logica:
Quando ci si rappresenta in una maniera più precisa questo stesso vedere, è facile accorgersi che nell’assoluta chiarezza non si vede né più né meno che nell’assoluta oscurità, e che così l’uno come l’altro vedere sono un puro vedere, un vedere nulla. La pura luce e la pura oscurità sono
due vuoti, che sono lo stesso. Solo nella luce determinata – e la luce è determinata dall’oscurità, quindi solo nella luce intorbidata – si può distinguere qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce – quindi solo nell’oscurità rischiarata” (Hegel 1981, parte I, cap. I, nota 2).
Grazie alle ombre le cose acquistano dunque (piena) visibilità, così come sempre in virtù delle ombre – e del buio più in generale – riusciamo a vedere cose che la sola luce non è in grado di mostrare, o a vederle in modo diverso.
È questo forse l’insegnamento più importante che offre l’ombra alla sua Wanda nell’albo di Paul Chan The Shadow and her Wanda, di cui non esiste al momento alcuna traduzione in italiano. Un albo corredato da alcune note a fondo testo, redatte dallo stesso Chan per commentare in modo ironico e tutt’altro che pedante citazioni o passaggi della storia, chiamando spesso in causa anche autori di gran spessore come Goethe, Nietzsche, Adorno… e lo stesso Hegel.
Wanda è una bambina che, come molte altre bambine e molti altri bambini della sua età, ha paura della notte, della sua oscurità e dei suoi rumori, per cui, quando arriva il primo buio, corre a infilarsi a letto, non senza però canzonare, una volta al sicuro sotto le coperte, le tenebre che avanzano (“provo pena per voi, stelle infelici”, dice Wanda citando a sua insaputa Goethe, “voi piangete in un buio senza lacrime”; la traduzione è mia). Non avendo più nulla da temere, Wanda si abbandona ai suoi sogni, dove tutto è luminoso e familiare (“everything was bright and familiar”). È nella calda e accogliente luce del risveglio che fa la sua apparizione l’ombra, spaventando la bambina.
Quello che segue è un semplice e altrettanto denso confronto tra l’ombra e la sua Wanda su diverse questioni concernenti le ombre. Innanzitutto sul loro legame con la fonte e la loro somiglianza con essa, una somiglianza non soltanto esteriore ma assai più intima, in cui ritroviamo perciò il concetto di ombra-anima: “sono insieme a te ogni giorno […] sono praticamente come te”, dice l’ombra alla sua Wanda per rassicurarla, per poi assumere la forma delle cose che la bambina ama di più, così da dimostrarle la profondità del loro legame.
Nel corso di tutta la storia, poi, troviamo continue allusioni o accenni al rapporto tra l’ombra, il tempo e la morte, con un’ombra che ora si trova sotto Wanda perché “è mezzogiorno”, ora invece si congeda dalla bambina sussurrando, perché “quando il sole tramonta, le ombre diventano molto deboli”. L’ombra prodotta per proiezione è legata alla vita e al suo scorrere, come spiega Dante stesso nel Purgatorio (III, 16-30): le anime dei morti non hanno un’ombra che ne scandisca il divenire, sono esse stesse fatte di ombra, un’ombra ormai fissa e immutabile in un istante eterno. Sono come le ombre nella notte.
E infine, facendosi forza dinanzi a un’ombra con la quale nel frattempo ha familiarizzato e che ha perciò smesso di terrorizzarla al punto da indurla alla fuga (una fuga inutile, ovviamente, perché l’ombra resta sempre attaccata alla bambina e la segue ovunque: non esiste una “direzione opposta” verso cui scappare da un’ombra), Wanda trasforma lo spavento in accusa e risponde all’ombra sul motivo della sua paura: “tu lasci una traccia, lasci una ferita […] tu sei la notte nel mio mondo”. Da qui prende avvio il cambio di prospettiva suggerito dall’ombra, in virtù del quale viene messa in discussione la corrispondenza tra luce-bello-verità, e la ripugnanza per ciò che è oscuro, che caratterizzano soprat- tutto il pensiero occidentale; perché, osserva l’ombra un po’ risentita e pronta al riscatto, “il mondo brilla in modo diverso nel buio”.
Bibliografia
- Bruel C., Bozellec A., Storia di Giulia che aveva un’ombra da bambino, Settenove, 2015
- Casati R., La scoperta dell’ombra, Laterza, 2008
- Chan P., The Shadow and her Wanda, Koenig Books, 2007
- Hegel G.W.F., Scienza della logica, Laterza, 1981
- Lee S., Mirror, Corraini, 2003
- Lee S., Ombra, Corraini, 2010
- Lee S., La trilogia del limite, Mantova, Corraini, 2018
- London J., L’ombra e il bagliore, illustrazioni di Fabian Ne- grin, Orecchio acerbo, 2010
- Lacan J., Ecrits I, Éditions du Seuil, 1966
- Melchior-Bonnel S., Storia dello specchio, Dedalo, 2002
- Stoichita V., Breve storia dell’ombra, Il Saggiatore, 2015
- Von Chamisso A., Storia straordinaria di Peter Schlemihl, Garzanti, 2008