Masterclass di Hervé Tullet, Lucie Félix e Sophie Van Der Linden
Questa è la trascrizione delle masterclass che si sono tenute il 20 marzo 2022 in occasione dell’evento “Il libro-gioco. Lettura, sorpresa e gioco”, svoltosi in Biblioteca Salaborsa nell’ambito di BOOM! Crescere nei libri 2022 e del progetto “Aspettando Three Dots” a cura di Bologna Biblioteche, in collaborazione con LXL – Leggere per leggere Bologna, Hamelin, Institut Français Italia, Centro Zaffiria, Bayard, Franco Cosimo Panini, L’Ippocampo e Bologna Children’s Book Fair.
Ilaria Tontardini: Buona sera a tutte e tutti, grazie di essere tanto numerosi. È una domenica speciale perché finalmente, dopo tanta attesa, da domani si terrà in presenza Bologna Children’s Book Fair, che è la scusa che ci consente di essere qui insieme. In realtà le scuse ufficiali sono due: oltre alla Fiera che riprende, c’è un progetto che coinvolge il Comune di Bologna, Bologna Biblioteche e Salaborsa grazie a una donazione fatta attraverso la mediazione del Centro Zaffiria da Hervé Tullet. Questa donazione porterà in Salaborsa Three dots, tre sculture percorribili, esperibili e fruibili dai bambini e dalle bambine che frequentano la biblioteca. Ne abbiamo approfittato per aspettarle con voi e concentrarci su una delle specificità del lavoro di Tullet che ci permette di aprire il discorso a un tipo di libro a cui la giornata di oggi è dedicata. Il libro-gioco, lettura sorpresa e gioco è il titolo di questo convegno, che esplora il trattino che sta tra la parola “libro” e la parola “gioco”.
Il libro-gioco genera un’esperienza di lettura, un coinvolgimento dei corpi che permette di ragionare su cosa vuol dire stare nel libro e uscire dal libro. Una delle cose che interessa di più chi lavora con il visivo e con la lettura è il gioco del confine: che cos’è un oggetto? Quanto gli artisti e le artiste, ma anche i lettori e le lettrici, forzano continuamente i limiti di questo oggetto?
Il libro-gioco è un esempio folgorante di questo passaggio. Lo è fin dalle origini, e per questo avremmo voluto avere con noi la persona che in Italia ha fatto il più grande lavoro su questo tipo di libri: Loredana Farina, la fondatrice nel 1977 della casa editrice La Coccinella, che ha inventato i famosi libri con i buchi. I libri con i buchi sono il prototipo del libro-gioco per eccellenza perché il buco è un elemento che si ritrova sempre nella lettura. Leggere vuol dire anche riempire buchi: riempirli di senso, con le mani, con i pensieri. Ma i buchi sono anche pause, vuoti, silenzi. E intorno a questo vuoto, che quel trattino non colma ma perimetra, ci sembra importante discutere oggi. Per farlo, abbiamo qui due grandissimi artisti: Hervé Tullet e Lucie Felix, che hanno esplorato tante delle potenzialità di questo tipo di libri.
Abbiamo con noi anche Sophie Van der Linden, una critica che si occupa da tempo di letteratura per l’infanzia e albi illustrati, ma che è anche scrittrice: a lei abbiamo chiesto di cucire i fili fra i lavori di Tullet e Félix.
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Sophie Van der Linden: Lucie, Hervé, siete tra gli artisti che resistono alle etichette. Siete autori, illustratori, creatori di libri e siete dei maghi. Come definire le vostre creazioni? Libro-oggetto, libro-gioco, libro d’artista, oppure supporti di lettura? Anche i vostri laboratori sono tutto meno che una semplice animazione alla lettura; si basano sul movimento, sulle tele, su un percorso strutturato. Vorrei quindi iniziare mettendo in luce i vostri punti in comune a partire dalle vostre produzioni.
Lucie, tu hai fatto studi scientifici per poi trovare il gusto per tutto ciò che è artistico, e hai frequentato la Scuola Nazionale Superiore delle arti di Lorraine dove ti sei concentrata sulla grafica e sulla tipografia. I tuoi libri sono usciti per l’editore francese Les Grand Personnes, con l’editrice Brigitte Morel che è un personaggio importante anche per l’opera di Hervé. Il tuo primo albo illustrato, uscito nel 2012, si chiama Deux Yeux, “due occhi” e ha attirato l’attenzione per il lavoro sulla doppia pagina e lo stile molto curato, sintetico ma anche poetico e quasi magico perché ogni giro pagina è una rivelazione. Tra gli altri tuoi albi ci sono Hariki, un richiamo al tuo interesse per la scienza, e Coucou, senza testo e senza immagini, composto da schermi in plastica colorata.
Passo ora a Hervé: la tua carriera è iniziata nel 1994 con Come papà ha incontrato la mammaedito da Hachette Livre. Nel 1998 hai ricevuto il primo premio proprio alla Bologna Children’s Book Fair per Notte e giorno, un altro albo che gioca sui confronti a doppia pagina. Dopo è arrivato Cinque sensi, dove la tua opera ha raggiunto la sua pienezza e hai iniziato a creare serie di libri-gioco, che forse dovremmo chiamare semplicemente giochi. Nel 2010 è arrivato il successo planetario con un libro che ha cambiato il modo di vedere i libri-gioco, e da lì è iniziata una nuova fase, che va da Colori fino all’ultimo La danza delle mani.
Dopo questo excursus, vorrei parlare di ciò che vi differenzia. Parto da Matisse, soprattutto il Matisse dell’ultimo periodo, quello dei ritagli di carta. È una vostra referenza?
Lucie Félix: Per me Matisse è stato sempre la calma, la tranquillità, perché ho avuto una maestra tra i cinque e i dieci anni che era davvero una torturatrice. Forse esagero, ma mi faceva sinceramente paura. Però amava l’arte e ci faceva studiare la poesia, la pittura, e per noi erano i momenti in cui potevamo stare tranquilli con lei. Il Matisse dell’ultimo periodo è molto facile da riprodurre, perciò ci piaceva copiare le sue opere. Dopo ho scoperto anche il resto del suo lavoro, le sue vetrate e la casa a Villa des Arènes, le sue ceramiche… In un certo senso ho un legame con lui. E saluto la mia maestra, perché comunque ha fatto un gran lavoro.
Sophie Van der Linden: Un’altra cosa che avete in comune è il percorso scolastico un po’ difficile. Hervé, immagino non sia stato a scuola che hai scoperto il tuo amore per l’arte.
Hervé Tullet: A scuola ho scoperto Picasso, perché dicevano sempre: “Stai facendo il tuo Picasso”. Il XX secolo era dominato in Francia da Matisse e Picasso. Matisse invece è per me l’emblema del percorso, un’evoluzione permanente e anche una rivoluzione permanente. Una rivoluzione tranquilla che allo stesso tempo ha una tensione fortissima. Soprattutto nell’ultimo periodo, quando lavorava con la carta ritagliata: è impressionante pensare che lavorava dal letto, aiutato da un assistente e usando un bastone. Il ritaglio del colore per arrivare alla luce, la sua riflessione concettuale e le esperienze come quella dell’atelier Rouge sono molto forti. La sua arte si può descrivere con una parola: jazz.
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Sophie Van der Linden: Quali sono altri autori e autrici che considerate un riferimento per il vostro lavoro?
Hervé Tullet: Penso a Katsumi Komagata. La prima volta che ho visto la sua opera non avevo ancora fatto il mio primo libro. In quel periodo avevo un bambino piccolo e stavo scoprendo, grazie al mio lavoro di padre, la letteratura per l’infanzia. Komagata mi ha fatto scoprire che si possono esprimere le cose in modo diverso.
Sophie Van der Linden: La generazione che passa da Munari per arrivare a Komagata, questo insieme di artisti pubblicati da Corraini in Italia, ha aperto a possibilità diverse: improvvisamente il disegno non c’era più ma c’erano nuove strade. È una cosa che hai notato anche tu, Lucie?
Lucie Félix: Io questi autori li ho scoperti da studentessa, mi interessavo soprattutto alla grafica, non avevo figli… Però mi sono resa conto da subito che i loro lavori si rivolgevano davvero a bambine e bambini, in modo molto preciso e con un certo rispetto. Se penso alle foto di Munari in doppiopetto chinato a quattro zampe a lavorare con bambine e bambini, vedo il rispetto. Io ero partita dalla scienza ma mi sembrava che questa disciplina non parlasse abbastanza di me, avevo bisogno di esprimermi. Quindi, arrivata alla scuola d’arte, mi sono chiesta: ha senso tutto questo? Osservando tutti questi artisti, invece, ho capito che mi hanno toccato proprio perchè si rivolgevano a qualcuno, il loro era un linguaggio che capivo e pensavo che avrei potuto farci qualcosa anche io.
Hervé Tullet: Non vorrei limitarmi al libro perché per me è ciò che è importante è lo sguardo dell’infanzia, non solo sul libro ma sul mondo tutto. Quando ho iniziato a vedere il mondo con gli occhi dell’infanzia, attraverso gli occhi di un bambino che era mio figlio, è stato molto potente. Lo avevo in braccio e lo portavo alla mostra di Calder a Parigi a vedere i mobiles appesi che si muovevano e questo ha rivelato il suo sguardo potente, lo stesso che metteva nei cartelli che vedeva per strada, nei segnali stradali luminosi, eccetera. Si tratta di una non-conoscenza che però è molto potente.
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Sophie Van der Linden: Tornando allo sguardo e allo spazio che l’arte ha nel mondo, come hai riflettuto? Come hai pensato a questo sguardo, al modo per fare entrare un bambino o una bambina direttamente nella lettura di un libro?
Lucie Félix: Anch’io poi ho avuto un figlio e nello stesso periodo ho cominciato a tenere laboratori nelle scuole e a chiedermi che cosa succede nella testa di un bambino o di una bambina. Concordo con Hervé quando dice che per loro un libro e un sasso sono più o meno la stessa cosa, basta che il loro sguardo si posi sopra questi oggetti per trasformarli in esperienza. Tutto è aperto all’immaginazione nell’infanzia. Così mi sono interessata a chi studiava queste cose, alla pedagogia montessoriana e ad alcuni pedagogisti come Freinet. Tutte queste influenze diverse, unite al fatto che avevo fatto cinque anni di biologia e che leggevo spesso libri di scienze, neuroscienze e psicologia, e che mi fossi interessata alla scuola sperimentale di uno scienziato statunitense che si chiama Tomasello, sono state fondamentali per il mio lavoro. Sono partita anche dai ricordi della mia infanzia, perché giocavo molto con i miei amici e i miei fratelli. Per me era importante scoprire come attivare la curiosità di bambini e bambini, fare in modo che ascoltassero. E farlo attraverso l’interazione con gli oggetti.
Sophie Van der Linden: Siamo qui nella patria dei libri illeggibili, quindi non credo che nessuno si scandalizzerà per il tuo libro Coucou, un libro senza testo, senza fronte né retro, composto solo di molti colori e plastiche trasparenti. Com’è nata quest’opera?
Lucie Félix: È nata da una residenza che ho fatto in un asilo nido. Sono tornata al libro illeggibile perché per me è importante l’interazione, la sperimentazione, soprattutto con bambini e bambine di tre anni che, quando una cosa non interessa più, se ne vanno. Il libro è entrato nel contesto del gioco, volevo favorire un legame tra lettura e oggetto che diventasse un pretesto per giocare, come succede con i libri di Komagata di cui parlavamo poco fa. Se diamo un oggetto del genere a un bambino o una bambina molto piccoli si attiva un gioco di sguardi con l’adulto che glielo offre, che lo sta leggendo insieme a lui o lei: questo è il punto di partenza poi per costruire un amore per la lettura. Anche se non è questo il motivo principale per cui l’ho fatto, mi interessa il concetto di scambio tra adulto e infanzia.
Un’altra cosa a a cui tengo molto è il fatto che non vedo il libro come un oggetto sacro, e anche nel mio ruolo di artista non voglio che questo emerga. Spesso si dà al testo un’autorità, come se fosse l’elemento più importante; per esempio, i guru della scrittura arrivano sempre, a un certo punto, a scrivere un libro per l’infanzia che non è per forza bello. Per me invece bambini e bambine devono poter dire la loro, criticare un libro, criticarlo, pestarlo, leccarlo, triturarlo.
Sophie Van der Linden: Torno da Hervé. Il tuo percorso di artista è forse l’eco di un’insoddisfazione verso l’oggetto libro che non ti bastava più, perché ormai lo avevi esplorato in ogni modo. Il tuo ultimo libro infatti è diventato un volume immenso. Possiamo dire che il tuo percorso non è una conquista dello spazio?
Hervé Tullet: In effetti mi hai dato un’idea. Ecco cosa faccio nella vita, sono un cosmonauta alla conquista dello spazio. C’è una conquista degli spazi perché non ho mai voluto fermarmi a un’immagine stampata su un libro. Ho capito che vedevo il libro come uno scultore. Per me il libro è una scultura, col suo dorso, con le pagine che si girano… Non è la fine, è l’inizio. Il libro è l’inizio. È l’inizio della conquista dello spazio, e non il mio ma lo spazio di chi prende in mano il libro. È la conquista della voce, e anche dello spazio fisico perché usciamo dal libro e lo facciamo diventare altro, ci allarghiamo e lo dimentichiamo. Il mio ultimo libro La danza delle mani richiama la musica, i gesti, la coreografia che spero sarà sperimentata dai lettori e lettrici. Perchè ogni libro rimane un tentativo, una scommessa, non si sa mai cosa farà succedere.
Sophie Van der Linden: Spieghiamo meglio come funziona La danza delle mani, che è già uscito in Francia ma arriverà in Italia nel 2023. Il gesto di chi legge lascia il libro e diventa spartito. Il gioco con la mano sul libro incita la mano a sollevarsi e a muoversi secondo partiture musicali basate sul colore. C’è un legame tra questo libro, questo gesto, e i tuoi laboratori?
Hervé Tullet: C’è un legame permanente, una coerenza estrema tra il lavoro che faccio con bambini e bambine e l’iniziazione al gesto della pittura. Sia nei laboratori sia nella mia pratica di pittura. E ciò che lega tutto forse è la musica, perché la musica è nell’istante, e quello che mi piace è proprio il momento, l’istante, il qui e ora.
Sophie Van der Linden: Lucie, i tuoi atelier laboratori molto diversi da quelli di Hervé, anche se ritrovo in essi l’idea del gesto, della postura, del movimento e della manipolazione.
Lucie Félix: Nei miei laboratori parto dagli oggetti, ad esempio uova di legno o tubi in cartone che ho preso come idea dallo psicologo Tomaselli di cui parlavo prima, e che lavora molto sul concetto di collaborazione tra bambini e bambine. Per un bambino o una bambina la lettura è un’attività tra mille, ed è necessario uscire da libro per andare alla conquista del mondo. Il libro, quindi, è un punto di inizio da cui poi bisogna costruire, sperimentare, inventare. Arrivo negli asili nido con alcuni oggetti molto semplici, poi lascio bambini e bambine liberi di giocare. Mi accorgo così che parlo sempre meno durante i laboratori, predispongo i materiali, do delle consegne implicite (anche perché hanno 18 mesi, non posso lanciarmi in lunghe spiegazioni) e lascio che giochino. A volte nascondo i libri negli angoli in modo che li trovino da soli, e questo per loro è già un gioco, una sorpresa. La prima forma di gioco è l’invenzione: cosa possiamo fare? Cosa vogliamo fare? Io porto un tubo di cartone senza dire niente, ad esempio, e il tubo ha un buco in cui si può far passare un uovo di legno, l’uovo cade dentro un altro buco che io non avevo mostrato perché volevo che lo scoprisser loro… Tutto è una scoperta sempre nuova.
Hervé Tullet: Io spesso ho il problema inverso: bambini e bambine sono alla conquista dello spazio, ma ho l’impressione che questo spazio si stia riducendo sempre di più. Nei miei laboratori faccio disegnare un puntino molto piccino, e invito poi ad allontanarsi. La conquista dello spazio prende tempo, bisogna staccarsi da ciò che è vicino. La conquista dello spazio è una domanda che riamane irrisolta, una domanda che pochi artisti si fanno, ma che nell’infanzia è innata. Mi interrogo su questa cosa, magari non dal punto di vista scientifico e psicologico, ma sento che c’è questa domanda.
Hervé Tullet: Ti è capitato di avere bambini e bambine che partecipassero a diversi dei tuoi laboratori nel tempo?
Lucie Félix: Sì, e mi accorgo subito che capiscono come funziona, la seconda volta riescono nella conquista dello spazio in modo più congeniale della prima. Per questo sono molto importanti le persone che lavorano con loro quotidianamente, ed è fondamentale trasmettere questi concetti, queste domande sulla conquista dello spazio anche alle e agli insegnanti.
Hervé Tullet: Siamo sicuri che nei programmi scolastici ci sia la parola “spazio”? Una volta abbiamo usato il libro Bisogna confondersi per esplorare tutta una scuola, di traverso, di sopra, di sotto; bambini e bambine sono andati in giro insieme alle insegnanti per scoprire lo spazio, non lo avevano mai fatto prima.
Sophie Van der Linden: Sono molto felice che siamo partiti dal libro per arrivare alla conquista dello spazio, e che due autori che non si conoscevano siano arrivati al dialogo. Grazie a tutte e tutti.
Libro-gioco: lettura sorpresa e gioco
Masterclass di Hervé Tullet, Lucie Félix e Sophie Van Der Linden
Questa è la trascrizione delle masterclass che si sono tenute il 20 marzo 2022 in occasione dell’evento “Il libro-gioco. Lettura, sorpresa e gioco”, svoltosi in Biblioteca Salaborsa nell’ambito di BOOM! Crescere nei libri 2022 e del progetto “Aspettando Three Dots” a cura di Bologna Biblioteche, in collaborazione con LXL – Leggere per leggere Bologna, Hamelin, Institut Français Italia, Centro Zaffiria, Bayard, Franco Cosimo Panini, L’Ippocampo e Bologna Children’s Book Fair.
Ilaria Tontardini: Buona sera a tutte e tutti, grazie di essere tanto numerosi. È una domenica speciale perché finalmente, dopo tanta attesa, da domani si terrà in presenza Bologna Children’s Book Fair, che è la scusa che ci consente di essere qui insieme. In realtà le scuse ufficiali sono due: oltre alla Fiera che riprende, c’è un progetto che coinvolge il Comune di Bologna, Bologna Biblioteche e Salaborsa grazie a una donazione fatta attraverso la mediazione del Centro Zaffiria da Hervé Tullet. Questa donazione porterà in Salaborsa Three dots, tre sculture percorribili, esperibili e fruibili dai bambini e dalle bambine che frequentano la biblioteca. Ne abbiamo approfittato per aspettarle con voi e concentrarci su una delle specificità del lavoro di Tullet che ci permette di aprire il discorso a un tipo di libro a cui la giornata di oggi è dedicata. Il libro-gioco, lettura sorpresa e gioco è il titolo di questo convegno, che esplora il trattino che sta tra la parola “libro” e la parola “gioco”.
Il libro-gioco genera un’esperienza di lettura, un coinvolgimento dei corpi che permette di ragionare su cosa vuol dire stare nel libro e uscire dal libro. Una delle cose che interessa di più chi lavora con il visivo e con la lettura è il gioco del confine: che cos’è un oggetto? Quanto gli artisti e le artiste, ma anche i lettori e le lettrici, forzano continuamente i limiti di questo oggetto?
Il libro-gioco è un esempio folgorante di questo passaggio. Lo è fin dalle origini, e per questo avremmo voluto avere con noi la persona che in Italia ha fatto il più grande lavoro su questo tipo di libri: Loredana Farina, la fondatrice nel 1977 della casa editrice La Coccinella, che ha inventato i famosi libri con i buchi. I libri con i buchi sono il prototipo del libro-gioco per eccellenza perché il buco è un elemento che si ritrova sempre nella lettura. Leggere vuol dire anche riempire buchi: riempirli di senso, con le mani, con i pensieri. Ma i buchi sono anche pause, vuoti, silenzi. E intorno a questo vuoto, che quel trattino non colma ma perimetra, ci sembra importante discutere oggi. Per farlo, abbiamo qui due grandissimi artisti: Hervé Tullet e Lucie Felix, che hanno esplorato tante delle potenzialità di questo tipo di libri.
Abbiamo con noi anche Sophie Van der Linden, una critica che si occupa da tempo di letteratura per l’infanzia e albi illustrati, ma che è anche scrittrice: a lei abbiamo chiesto di cucire i fili fra i lavori di Tullet e Félix.
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Sophie Van der Linden: Lucie, Hervé, siete tra gli artisti che resistono alle etichette. Siete autori, illustratori, creatori di libri e siete dei maghi. Come definire le vostre creazioni? Libro-oggetto, libro-gioco, libro d’artista, oppure supporti di lettura? Anche i vostri laboratori sono tutto meno che una semplice animazione alla lettura; si basano sul movimento, sulle tele, su un percorso strutturato. Vorrei quindi iniziare mettendo in luce i vostri punti in comune a partire dalle vostre produzioni.
Lucie, tu hai fatto studi scientifici per poi trovare il gusto per tutto ciò che è artistico, e hai frequentato la Scuola Nazionale Superiore delle arti di Lorraine dove ti sei concentrata sulla grafica e sulla tipografia. I tuoi libri sono usciti per l’editore francese Les Grand Personnes, con l’editrice Brigitte Morel che è un personaggio importante anche per l’opera di Hervé. Il tuo primo albo illustrato, uscito nel 2012, si chiama Deux Yeux, “due occhi” e ha attirato l’attenzione per il lavoro sulla doppia pagina e lo stile molto curato, sintetico ma anche poetico e quasi magico perché ogni giro pagina è una rivelazione. Tra gli altri tuoi albi ci sono Hariki, un richiamo al tuo interesse per la scienza, e Coucou, senza testo e senza immagini, composto da schermi in plastica colorata.
Passo ora a Hervé: la tua carriera è iniziata nel 1994 con Come papà ha incontrato la mammaedito da Hachette Livre. Nel 1998 hai ricevuto il primo premio proprio alla Bologna Children’s Book Fair per Notte e giorno, un altro albo che gioca sui confronti a doppia pagina. Dopo è arrivato Cinque sensi, dove la tua opera ha raggiunto la sua pienezza e hai iniziato a creare serie di libri-gioco, che forse dovremmo chiamare semplicemente giochi. Nel 2010 è arrivato il successo planetario con un libro che ha cambiato il modo di vedere i libri-gioco, e da lì è iniziata una nuova fase, che va da Colori fino all’ultimo La danza delle mani.
Dopo questo excursus, vorrei parlare di ciò che vi differenzia. Parto da Matisse, soprattutto il Matisse dell’ultimo periodo, quello dei ritagli di carta. È una vostra referenza?
Lucie Félix: Per me Matisse è stato sempre la calma, la tranquillità, perché ho avuto una maestra tra i cinque e i dieci anni che era davvero una torturatrice. Forse esagero, ma mi faceva sinceramente paura. Però amava l’arte e ci faceva studiare la poesia, la pittura, e per noi erano i momenti in cui potevamo stare tranquilli con lei. Il Matisse dell’ultimo periodo è molto facile da riprodurre, perciò ci piaceva copiare le sue opere. Dopo ho scoperto anche il resto del suo lavoro, le sue vetrate e la casa a Villa des Arènes, le sue ceramiche… In un certo senso ho un legame con lui. E saluto la mia maestra, perché comunque ha fatto un gran lavoro.
Sophie Van der Linden: Un’altra cosa che avete in comune è il percorso scolastico un po’ difficile. Hervé, immagino non sia stato a scuola che hai scoperto il tuo amore per l’arte.
Hervé Tullet: A scuola ho scoperto Picasso, perché dicevano sempre: “Stai facendo il tuo Picasso”. Il XX secolo era dominato in Francia da Matisse e Picasso. Matisse invece è per me l’emblema del percorso, un’evoluzione permanente e anche una rivoluzione permanente. Una rivoluzione tranquilla che allo stesso tempo ha una tensione fortissima. Soprattutto nell’ultimo periodo, quando lavorava con la carta ritagliata: è impressionante pensare che lavorava dal letto, aiutato da un assistente e usando un bastone. Il ritaglio del colore per arrivare alla luce, la sua riflessione concettuale e le esperienze come quella dell’atelier Rouge sono molto forti. La sua arte si può descrivere con una parola: jazz.
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Sophie Van der Linden: Quali sono altri autori e autrici che considerate un riferimento per il vostro lavoro?
Hervé Tullet: Penso a Katsumi Komagata. La prima volta che ho visto la sua opera non avevo ancora fatto il mio primo libro. In quel periodo avevo un bambino piccolo e stavo scoprendo, grazie al mio lavoro di padre, la letteratura per l’infanzia. Komagata mi ha fatto scoprire che si possono esprimere le cose in modo diverso.
Sophie Van der Linden: La generazione che passa da Munari per arrivare a Komagata, questo insieme di artisti pubblicati da Corraini in Italia, ha aperto a possibilità diverse: improvvisamente il disegno non c’era più ma c’erano nuove strade. È una cosa che hai notato anche tu, Lucie?
Lucie Félix: Io questi autori li ho scoperti da studentessa, mi interessavo soprattutto alla grafica, non avevo figli… Però mi sono resa conto da subito che i loro lavori si rivolgevano davvero a bambine e bambini, in modo molto preciso e con un certo rispetto. Se penso alle foto di Munari in doppiopetto chinato a quattro zampe a lavorare con bambine e bambini, vedo il rispetto. Io ero partita dalla scienza ma mi sembrava che questa disciplina non parlasse abbastanza di me, avevo bisogno di esprimermi. Quindi, arrivata alla scuola d’arte, mi sono chiesta: ha senso tutto questo? Osservando tutti questi artisti, invece, ho capito che mi hanno toccato proprio perchè si rivolgevano a qualcuno, il loro era un linguaggio che capivo e pensavo che avrei potuto farci qualcosa anche io.
Hervé Tullet: Non vorrei limitarmi al libro perché per me è ciò che è importante è lo sguardo dell’infanzia, non solo sul libro ma sul mondo tutto. Quando ho iniziato a vedere il mondo con gli occhi dell’infanzia, attraverso gli occhi di un bambino che era mio figlio, è stato molto potente. Lo avevo in braccio e lo portavo alla mostra di Calder a Parigi a vedere i mobiles appesi che si muovevano e questo ha rivelato il suo sguardo potente, lo stesso che metteva nei cartelli che vedeva per strada, nei segnali stradali luminosi, eccetera. Si tratta di una non-conoscenza che però è molto potente.
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Sophie Van der Linden: Tornando allo sguardo e allo spazio che l’arte ha nel mondo, come hai riflettuto? Come hai pensato a questo sguardo, al modo per fare entrare un bambino o una bambina direttamente nella lettura di un libro?
Lucie Félix: Anch’io poi ho avuto un figlio e nello stesso periodo ho cominciato a tenere laboratori nelle scuole e a chiedermi che cosa succede nella testa di un bambino o di una bambina. Concordo con Hervé quando dice che per loro un libro e un sasso sono più o meno la stessa cosa, basta che il loro sguardo si posi sopra questi oggetti per trasformarli in esperienza. Tutto è aperto all’immaginazione nell’infanzia. Così mi sono interessata a chi studiava queste cose, alla pedagogia montessoriana e ad alcuni pedagogisti come Freinet. Tutte queste influenze diverse, unite al fatto che avevo fatto cinque anni di biologia e che leggevo spesso libri di scienze, neuroscienze e psicologia, e che mi fossi interessata alla scuola sperimentale di uno scienziato statunitense che si chiama Tomasello, sono state fondamentali per il mio lavoro. Sono partita anche dai ricordi della mia infanzia, perché giocavo molto con i miei amici e i miei fratelli. Per me era importante scoprire come attivare la curiosità di bambini e bambini, fare in modo che ascoltassero. E farlo attraverso l’interazione con gli oggetti.
Sophie Van der Linden: Siamo qui nella patria dei libri illeggibili, quindi non credo che nessuno si scandalizzerà per il tuo libro Coucou, un libro senza testo, senza fronte né retro, composto solo di molti colori e plastiche trasparenti. Com’è nata quest’opera?
Lucie Félix: È nata da una residenza che ho fatto in un asilo nido. Sono tornata al libro illeggibile perché per me è importante l’interazione, la sperimentazione, soprattutto con bambini e bambine di tre anni che, quando una cosa non interessa più, se ne vanno. Il libro è entrato nel contesto del gioco, volevo favorire un legame tra lettura e oggetto che diventasse un pretesto per giocare, come succede con i libri di Komagata di cui parlavamo poco fa. Se diamo un oggetto del genere a un bambino o una bambina molto piccoli si attiva un gioco di sguardi con l’adulto che glielo offre, che lo sta leggendo insieme a lui o lei: questo è il punto di partenza poi per costruire un amore per la lettura. Anche se non è questo il motivo principale per cui l’ho fatto, mi interessa il concetto di scambio tra adulto e infanzia.
Un’altra cosa a a cui tengo molto è il fatto che non vedo il libro come un oggetto sacro, e anche nel mio ruolo di artista non voglio che questo emerga. Spesso si dà al testo un’autorità, come se fosse l’elemento più importante; per esempio, i guru della scrittura arrivano sempre, a un certo punto, a scrivere un libro per l’infanzia che non è per forza bello. Per me invece bambini e bambine devono poter dire la loro, criticare un libro, criticarlo, pestarlo, leccarlo, triturarlo.
Sophie Van der Linden: Torno da Hervé. Il tuo percorso di artista è forse l’eco di un’insoddisfazione verso l’oggetto libro che non ti bastava più, perché ormai lo avevi esplorato in ogni modo. Il tuo ultimo libro infatti è diventato un volume immenso. Possiamo dire che il tuo percorso non è una conquista dello spazio?
Hervé Tullet: In effetti mi hai dato un’idea. Ecco cosa faccio nella vita, sono un cosmonauta alla conquista dello spazio. C’è una conquista degli spazi perché non ho mai voluto fermarmi a un’immagine stampata su un libro. Ho capito che vedevo il libro come uno scultore. Per me il libro è una scultura, col suo dorso, con le pagine che si girano… Non è la fine, è l’inizio. Il libro è l’inizio. È l’inizio della conquista dello spazio, e non il mio ma lo spazio di chi prende in mano il libro. È la conquista della voce, e anche dello spazio fisico perché usciamo dal libro e lo facciamo diventare altro, ci allarghiamo e lo dimentichiamo. Il mio ultimo libro La danza delle mani richiama la musica, i gesti, la coreografia che spero sarà sperimentata dai lettori e lettrici. Perchè ogni libro rimane un tentativo, una scommessa, non si sa mai cosa farà succedere.
Sophie Van der Linden: Spieghiamo meglio come funziona La danza delle mani, che è già uscito in Francia ma arriverà in Italia nel 2023. Il gesto di chi legge lascia il libro e diventa spartito. Il gioco con la mano sul libro incita la mano a sollevarsi e a muoversi secondo partiture musicali basate sul colore. C’è un legame tra questo libro, questo gesto, e i tuoi laboratori?
Hervé Tullet: C’è un legame permanente, una coerenza estrema tra il lavoro che faccio con bambini e bambine e l’iniziazione al gesto della pittura. Sia nei laboratori sia nella mia pratica di pittura. E ciò che lega tutto forse è la musica, perché la musica è nell’istante, e quello che mi piace è proprio il momento, l’istante, il qui e ora.
Sophie Van der Linden: Lucie, i tuoi atelier laboratori molto diversi da quelli di Hervé, anche se ritrovo in essi l’idea del gesto, della postura, del movimento e della manipolazione.
Lucie Félix: Nei miei laboratori parto dagli oggetti, ad esempio uova di legno o tubi in cartone che ho preso come idea dallo psicologo Tomaselli di cui parlavo prima, e che lavora molto sul concetto di collaborazione tra bambini e bambine. Per un bambino o una bambina la lettura è un’attività tra mille, ed è necessario uscire da libro per andare alla conquista del mondo. Il libro, quindi, è un punto di inizio da cui poi bisogna costruire, sperimentare, inventare. Arrivo negli asili nido con alcuni oggetti molto semplici, poi lascio bambini e bambine liberi di giocare. Mi accorgo così che parlo sempre meno durante i laboratori, predispongo i materiali, do delle consegne implicite (anche perché hanno 18 mesi, non posso lanciarmi in lunghe spiegazioni) e lascio che giochino. A volte nascondo i libri negli angoli in modo che li trovino da soli, e questo per loro è già un gioco, una sorpresa. La prima forma di gioco è l’invenzione: cosa possiamo fare? Cosa vogliamo fare? Io porto un tubo di cartone senza dire niente, ad esempio, e il tubo ha un buco in cui si può far passare un uovo di legno, l’uovo cade dentro un altro buco che io non avevo mostrato perché volevo che lo scoprisser loro… Tutto è una scoperta sempre nuova.
Hervé Tullet: Io spesso ho il problema inverso: bambini e bambine sono alla conquista dello spazio, ma ho l’impressione che questo spazio si stia riducendo sempre di più. Nei miei laboratori faccio disegnare un puntino molto piccino, e invito poi ad allontanarsi. La conquista dello spazio prende tempo, bisogna staccarsi da ciò che è vicino. La conquista dello spazio è una domanda che riamane irrisolta, una domanda che pochi artisti si fanno, ma che nell’infanzia è innata. Mi interrogo su questa cosa, magari non dal punto di vista scientifico e psicologico, ma sento che c’è questa domanda.
Hervé Tullet: Ti è capitato di avere bambini e bambine che partecipassero a diversi dei tuoi laboratori nel tempo?
Lucie Félix: Sì, e mi accorgo subito che capiscono come funziona, la seconda volta riescono nella conquista dello spazio in modo più congeniale della prima. Per questo sono molto importanti le persone che lavorano con loro quotidianamente, ed è fondamentale trasmettere questi concetti, queste domande sulla conquista dello spazio anche alle e agli insegnanti.
Hervé Tullet: Siamo sicuri che nei programmi scolastici ci sia la parola “spazio”? Una volta abbiamo usato il libro Bisogna confondersi per esplorare tutta una scuola, di traverso, di sopra, di sotto; bambini e bambine sono andati in giro insieme alle insegnanti per scoprire lo spazio, non lo avevano mai fatto prima.
Sophie Van der Linden: Sono molto felice che siamo partiti dal libro per arrivare alla conquista dello spazio, e che due autori che non si conoscevano siano arrivati al dialogo. Grazie a tutte e tutti.
Vorrei vederla sciogliersi, dissolversi questa sagoma nera, emblema del mio peso. So di essere altro, un puro spirito.
Attenta ad inciampare.
– M.L. Spaziani
Le ombre sono un tema squisitamente filosofico, tanto perché battezzate in tal senso da Platone nel celebre mito della caverna, quanto perché danno avvio a tutta una serie di domande metafisiche e gnoseologiche – si definiscono come essere o come assenza? Qual è lo statuto d’essere di qualcosa che non è? In quale modo possiamo intenderle esistenti, se le consideriamo come privazione? – arrivando persino a innescare, come vedremo, il domandare medesimo. Ecco qui alcune considerazioni che possono scaturire da un tema così ricco e così variegato, talora persino contraddittorio, in relazione ad alcuni albi per l’infanzia.
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Che il tema dell’ombra sia contraddittorio lo dimostrano due racconti di autori antichi: l’uno, già citato, è il mito della caverna contenuto nel libro VII de La Repubblica di Platone; l’altro, forse meno conosciuto, è invece narrato nel Naturalis historia (XXXV, 15 e 43) di Plinio il Vecchio.
Nel primo caso, come è noto, le ombre sono un’immagine imperfetta della realtà: non soltanto una copia di essa, ma addirittura la proiezione di una sua copia, l’immagine di un’immagine, qualcosa perciò di ancor più lontano dal vero. Esse sono infatti prodotte da “oggetti d’ogni genere e statuette di uomini e di altri animali di pietra, di legno, foggiate nei modi più vari”, fatte scorrere davanti a una fiamma da alcune persone nascoste da un muretto, così da rendere l’inganno ancor più credibile per gli uomini dentro la caverna, incatenati in maniera tale da non poter girare indietro il capo e quindi da non poter svelare il perverso meccanismo illusorio.
Le ombre, insomma, allontanano dalla conoscenza vera, offrono anzi una conoscenza ingannevole che per di più asservisce l’uomo.
Plinio, invece, racconta di una giovane corinzia, Butade, che, per conservare l’immagine del suo amante che doveva partire per un’altra città, ne fissa su un muro il profilo dell’ombra del viso. Sarebbe stato poi il padre di Butade, partendo dalle linee di tale contorno, a imprimere sull’argilla un modello che riproducesse un ritratto capace di consolare la figlia dell’assenza dell’amato.
In questo caso l’ombra, pur restando una copia, diviene l’immagine più fedele al modello originale, ancor più fedele di qualsiasi artefatto creato dalla mano dell’artista, il quale non a caso parte proprio dall’ombra del giovane per realizzarne il ritratto.
Plinio, dunque, esalta l’ombra come origine dell’arte e le riconosce uno statuto di mimesis tutt’altro che ingannevole.
L’ombra spaventa, sembra ingannare mostrando un’immagine falsata del modello – un’ombra maschile per un soggetto femminile – tale che o non la si può vedere (la madre di Giulia), o non la si vuole vedere (Giulia stessa). Lo straniamento e la paura della bambina crescono pagina dopo pagina (“le ombre mangiano la luce?” chiede a un certo punto Giulia alla mamma), fino a generare il desiderio di annientamento della propria ombra attraverso espedienti fantasiosi e ovviamente fallimentari, perché l’ombra “è sempre lì”, a ricordare a Giulia chi è.
“E se avesse ragione l’ombra?”, si domanda quasi rassegnata la bambina, arrivando così persino a rovesciare il rapporto modello/ immagine e a credere alla verità unica e univoca della seconda, come gli uomini nella caverna di Platone. L’ombra, in effetti, ha ragione; ma non come inganno o trasfigurazione della verità. Semmai, come suo completamento. Essa mostra, non nasconde; paradossalmente, rivela ciò che non si vede (ciò che è, appunto, nell’ombra, o relegato in essa) e restituisce a Giulia l’immagine più fedele di se stessa, sebbene la bambina fatichi a riconoscerlo. La bambina e l’ombra sono quasi la stessa cosa: la seconda non è altro rispetto alla prima, ma parte della stessa identità.
Viene perciò meno lo sdoppiamento differenziante tra modello e immagine, come suggerisce l’illustrazione di chiusura della storia, un’illustrazione in cui si vede Giulia camminare senza la sua ombra, come se questa fosse stata in qualche modo assimilata.
L’ombra, dunque, nasconde e rivela. Essa insinua in Giulia un’identità ancora indefinita e tutta da scoprire, dando così avvio al questionarsi della bambina su se stessa.
La domanda di chi ricerca (un senso, o un’identità) nasce da un sospetto, da un dubbio che innesca la curiosità. Occorre presumere un inganno, poca chiarezza, una zona oscura (torna il lessico della luce e delle ombre), per attivarsi nell’indagine sulla verità.
È proprio il margine di indefinitezza o di deformazione dell’ombra ad innescare la domanda da cui prende avvio la ricerca, in questo caso del sé. La luce, l’Essere, direi anche il riflesso, non sono interrogativi, ma assertivi.
Lo specchio non lascia margini all’indefinito e quindi alla scoperta: mostra ogni cosa per com’è, non allude; dichiara e attesta, non interroga; risponde perlopiù a una ricerca, non la apre.
Lo specchio è luce piena, che appiattisce in un certo senso l’immagine perché ne riduce il potenziale euristico. L’ombra, al contrario, dà spessore e profondità alle cose, allo stesso modo in cui nelle arti figurative essa viene utilizzata per dare l’illusione di un rilievo, ossia della terza dimensione, consentendo in tale maniera una mimesis più efficace rispetto alla sola operazione “riflettente”.
Non solo. Proprio in quel suo margine di indefinitezza, di deformazione e di differenza si inserisce la possibilità della scoperta di ciò che è diverso da me, e quindi Altro-da-me. Già Lacan parlava di uno stadio dello specchio, che riguarda l’identificazione dell’io, e di uno stadio dell’ombra, che riguarda l’identificazione dell’Altro. L’ombra non mi restituisce la perfetta immagine di me, già soltanto perché non mi rende i miei colori e perché è facilmente deformabile; essa mostra perciò un me vagamente diverso, un Altro-da-me, che può essere anche un Altro-in-me, come nel caso di Giulia.
La dicotomia ombra/riflesso e alterità/identità, con tutti i corollari appena accennati, trova una geniale espressione in due albi di Suzy Lee divenuti ormai classici: Mirror e Ombra, per l’appunto.
Nel primo albo le iniziali e del tutto normali reazioni della bambina dinanzi alla sua immagine riflessa non sono che l’espressione del processo di riconoscimento di sé, di un’oggettivazione dell’Io nell’immagine sullo specchio che è vista sì come doppio, ma un doppio identico e perfettamente mimetico. Il conflitto tra le due bambine scoppia quando lo specchio smette di essere specchio riflettente e diviene specchio deformante, acquistando un’autonomia quasi provocatoria.
Il suo cessare di riprodurre fedelmente il modello – come dovrebbe invece fare in quanto specchio – genera dispetto nella bambina proprio perché è violazione di un Io che, in quanto ben consapevole di sé fino a un attimo prima in virtù dell’evidenza del suo riflesso, non accetta storpiature dall’identico.
In Ombra, invece, la deformazione è gioco: è perciò arricchimento, non tradimento.
Il concetto di ombra come Altro si connota anche qui di uno dei caratteri spesso associati alle ombre e al mondo dell’oscurità, così come al nostro rapporto con il diverso: la paura. Il lupo-ombra, l’Altro, spaventa la bambina e la costringe a rifugiarsi tra le ombre. Ma lo stesso lupo, a sua volta, verrà spaventato da un “mostro di ombre” a cui danno vita tutte le altre ombre, tra cui quella della bambina, unendosi l’una all’altra. L’Ombra, così come l’Altro – o proprio in quanto Altro – fa paura. Tuttavia, suggerisce la stessa Suzy Lee, con l’ombra la riconciliazione è più facile che non con il riflesso, proprio perché non si ha a che fare con un’identità tradita, ma con un’alterità che in parte ci forma: la bambina e/è l’ombra.
L’ombra del resto, a differenza del riflesso, resta ineludibilmente attaccata al suo soggetto-fonte: su qualsiasi superficie si proietti, la mia ombra mantiene sempre un punto di contatto con me. E, sempre a differenza del riflesso, l’ombra può subire modifiche, intermittenze e deformazioni indipendentemente dalla volontà del soggetto al quale appartiene, a dimostrazione che il nostro legame con essa trascende l’intenzionalità, ed è perciò un legame profondo, quasi essenziale, tale che in molte culture, come già ci insegnava Frazer, essa è considerata una sorta di omologo dell’anima.
Non è possibile, insomma, separarsi dalla propria ombra, pena la perdita della propria identità, il divenire nessuno. Lo impara a sue spese Peter Schlemihl, il personaggio del ce- lebre racconto di Chamisso: dopo aver venduto al diavolo la sua ombra in cambio di ricchezza, Peter viene rifiutato e temuto dalla società e non riuscirà più ad essere se stesso. Mentre Paul Tichlorne, uno dei protagonisti de L’ombra e il bagliore di Jack London, egregiamente illustrato da Fabian Negrin, ricorda al suo avversario che per quanti sforzi faccia per conquistare l’invisibilità attraverso pigmenti speciali, la sua ombra lo tradirà sempre e lui si troverà comunque “a fare i conti con l’ombra”.
Ombra e luce
Ancor più forte è il legame tra l’ombra e la luce, l’indissolubilità del quale è dovuta all’interdipendenza e alla reciprocità essenziale dei contrari, per i quali – insegna Eraclito – “la vita dei primi è la morte dei secondi, la vita dei secondi è la morte dei primi”.
Siamo soliti pensare che senza la luce non si possa vedere nulla: in una stanza totalmente buia, in effetti, non vediamo nessun oggetto, non vediamo nemmeno noi stessi. Tuttavia, sebbene non appaia così immediato, anche senza le ombre non riusciamo a vedere: in una realtà di sola luce, infatti, gli oggetti sembrerebbero fluttuare nell’aria e perderebbero ogni consistenza e spessore. Per poter vedere sono dunque necessarie entrambe, perché la visione è possibile soltanto in virtù del loro legame dialettico, come suggerisce Hegel in un passo della Scienza della logica:
Quando ci si rappresenta in una maniera più precisa questo stesso vedere, è facile accorgersi che nell’assoluta chiarezza non si vede né più né meno che nell’assoluta oscurità, e che così l’uno come l’altro vedere sono un puro vedere, un vedere nulla. La pura luce e la pura oscurità sono
due vuoti, che sono lo stesso. Solo nella luce determinata – e la luce è determinata dall’oscurità, quindi solo nella luce intorbidata – si può distinguere qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce – quindi solo nell’oscurità rischiarata” (Hegel 1981, parte I, cap. I, nota 2).
Grazie alle ombre le cose acquistano dunque (piena) visibilità, così come sempre in virtù delle ombre – e del buio più in generale – riusciamo a vedere cose che la sola luce non è in grado di mostrare, o a vederle in modo diverso.
È questo forse l’insegnamento più importante che offre l’ombra alla sua Wanda nell’albo di Paul Chan The Shadow and her Wanda, di cui non esiste al momento alcuna traduzione in italiano. Un albo corredato da alcune note a fondo testo, redatte dallo stesso Chan per commentare in modo ironico e tutt’altro che pedante citazioni o passaggi della storia, chiamando spesso in causa anche autori di gran spessore come Goethe, Nietzsche, Adorno… e lo stesso Hegel.
Wanda è una bambina che, come molte altre bambine e molti altri bambini della sua età, ha paura della notte, della sua oscurità e dei suoi rumori, per cui, quando arriva il primo buio, corre a infilarsi a letto, non senza però canzonare, una volta al sicuro sotto le coperte, le tenebre che avanzano (“provo pena per voi, stelle infelici”, dice Wanda citando a sua insaputa Goethe, “voi piangete in un buio senza lacrime”; la traduzione è mia). Non avendo più nulla da temere, Wanda si abbandona ai suoi sogni, dove tutto è luminoso e familiare (“everything was bright and familiar”). È nella calda e accogliente luce del risveglio che fa la sua apparizione l’ombra, spaventando la bambina.
Quello che segue è un semplice e altrettanto denso confronto tra l’ombra e la sua Wanda su diverse questioni concernenti le ombre. Innanzitutto sul loro legame con la fonte e la loro somiglianza con essa, una somiglianza non soltanto esteriore ma assai più intima, in cui ritroviamo perciò il concetto di ombra-anima: “sono insieme a te ogni giorno […] sono praticamente come te”, dice l’ombra alla sua Wanda per rassicurarla, per poi assumere la forma delle cose che la bambina ama di più, così da dimostrarle la profondità del loro legame.
Nel corso di tutta la storia, poi, troviamo continue allusioni o accenni al rapporto tra l’ombra, il tempo e la morte, con un’ombra che ora si trova sotto Wanda perché “è mezzogiorno”, ora invece si congeda dalla bambina sussurrando, perché “quando il sole tramonta, le ombre diventano molto deboli”. L’ombra prodotta per proiezione è legata alla vita e al suo scorrere, come spiega Dante stesso nel Purgatorio (III, 16-30): le anime dei morti non hanno un’ombra che ne scandisca il divenire, sono esse stesse fatte di ombra, un’ombra ormai fissa e immutabile in un istante eterno. Sono come le ombre nella notte.
E infine, facendosi forza dinanzi a un’ombra con la quale nel frattempo ha familiarizzato e che ha perciò smesso di terrorizzarla al punto da indurla alla fuga (una fuga inutile, ovviamente, perché l’ombra resta sempre attaccata alla bambina e la segue ovunque: non esiste una “direzione opposta” verso cui scappare da un’ombra), Wanda trasforma lo spavento in accusa e risponde all’ombra sul motivo della sua paura: “tu lasci una traccia, lasci una ferita […] tu sei la notte nel mio mondo”. Da qui prende avvio il cambio di prospettiva suggerito dall’ombra, in virtù del quale viene messa in discussione la corrispondenza tra luce-bello-verità, e la ripugnanza per ciò che è oscuro, che caratterizzano soprat- tutto il pensiero occidentale; perché, osserva l’ombra un po’ risentita e pronta al riscatto, “il mondo brilla in modo diverso nel buio”.
Bibliografia
Bruel C., Bozellec A., Storia di Giulia che aveva un’ombra da bambino, Settenove, 2015
Casati R., La scoperta dell’ombra, Laterza, 2008
Chan P., The Shadow and her Wanda, Koenig Books, 2007
Hegel G.W.F., Scienza della logica, Laterza, 1981
Lee S., Mirror, Corraini, 2003
Lee S., Ombra, Corraini, 2010
Lee S., La trilogia del limite, Mantova, Corraini, 2018
London J., L’ombra e il bagliore, illustrazioni di Fabian Ne- grin, Orecchio acerbo, 2010
Lacan J., Ecrits I, Éditions du Seuil, 1966
Melchior-Bonnel S., Storia dello specchio, Dedalo, 2002
Stoichita V., Breve storia dell’ombra, Il Saggiatore, 2015
Von Chamisso A., Storia straordinaria di Peter Schlemihl, Garzanti, 2008
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