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Gary Paulsen. Sull’avventura e su altre sciocchezze

Gary Paulsen. Sull’avventura e su altre sciocchezze


di Nicola Galli Laforest

 

Ogni anno, in Alaska, un pugno di avventurieri partecipa alla Iditarod Trail Sled Dog Race. Si tratta di una corsa di slitte trainate da cani, lungo un percorso non tracciato di circa 1770 Km, con una temperatura media di -40°C, senza bussole né marchingegni. La durata della gara si aggira intorno alle due settimane. Non ci sono regole, se non passare per determinate tappe e viaggiare in totale solitudine; ognuno può portare con sé del cibo per sé e per i cani, e prendere la strada che vuole. Per due volte, a metà anni Ottanta, grazie a una colletta tra i compaesani e un editore (in cambio dei diritti sul prossimo libro), anche Gary Paulsen si è cimentato nell’impresa con i suoi cani.

 

Pare abbia scritto in quelle condizioni alcuni dei suoi romanzi per ragazzi, mentre le bestie riposavano. Quanto ci sia di vero e quanto di leggenda non lo sappiamo, ma sicuramente sono di quegli anni, in cui se non era in gara si allenava, almeno tre delle sue opere migliori. Poi il cuore ha ceduto, e il suo medico lo ha obbligato a smettere il gioco. È rimasto qualche mese in panciolle con Cookie, il suo capomuta, protagonista di uno dei racconti lunghi più riusciti e commoventi tra quelli tradotti, Io e Cookie, per andarsene in seguito a vivere su una barca a vela sul Pacifico. Ora ha settant’anni, e nella lista degli iscritti alla Iditarod 2008 c’è il suo nome.

 

Gary Paulsen è davvero un personaggio straordinario, ben fuori dalle righe, la cui biografia non è poi così lontana da quelle di London e Conrad. Il numero di libri che ha pubblicato in America, tra racconti, romanzi e non-fiction (manuali su storia, sport, animali, vita all’aperto, motori…), è assolutamente impressionante; in Italia ne sono arrivati ventitré, e non pochi tra questi sono di altissimo livello; alcuni sono dei veri capolavori, che inserisco senza nessun dubbio tra le migliori opere per ragazzi contemporanee. Penso in particolare a Il figlio dei ghiacci, L’uomo delle volpi, Tracce, La cerva bianca, Al limite estremo, La mia indimenticabile estate con Harris.

 

Di autori che possono vantare sei titoli di questo genere, e diversi altri di qualità comunque ben superiori alla media, ce ne sono pochissimi. Eppure già da qualche anno acquistare un qualsiasi libro di Paulsen è impossibile: sono tutti fuori catalogo e rintracciabili solo nelle biblioteche più attente e fornite. Questa situazione paradossale, che vede una quantità sconcertante di novità di scarso valore spingere fuori dal mercato ciò che sembra meno vendibile, è un sintomo evidente della percezione che si ha oggi dell’avventura, di cui questo autore è maestro indiscusso. Paulsen non ha scritto in realtà solo storie avventurose, ma c’è, sempre e comunque, anche nelle situazioni più distanti dai canoni del genere, un modo di guardare il mondo, un atteggiamento nei confronti della vita diverso, e molto lontano da quello dominante, in particolare oggi.

 

Il primo elemento che colpisce nelle storie che racconta è una sorta di poetica dei sensi: in tutte le sue opere (non è vero: fanno eccezione quelle di ambientazione più “cittadina”, e cercherò in seguito di trovarne una ragione) si è catapultati in un ricchissimo universo sensoriale: ogni pagina restituisce colori, luci, odori, sapori, silenzi, rumori, sensazioni tattili e fisiche in maniera così intensa da creare un microcosmo vivo, e immergere il lettore nella stessa ambientazione in cui si trova il protagonista. Se c’è la neve (e naturalmente c’è spessissimo), a leggere si prende freddo. Questa presenza è così radicata e pervasiva che Paulsen l’ha anche voluta esplicitare, dedicandole le due pagine di introduzione a La stanza d’inverno: “Se i libri potessero essere qualcosa di più, mostrare di più e possedere di più, questo libro avrebbe degli odori… Avrebbe gli odori delle vecchie fattorie, l’odore dolce del fieno appena tagliato che cade dalla lama oliata della falciatrice tirata dai cavalli su e giù per il campo, e l’odore acre del letame che in inverno fuma nella stalla…”. Si può parlare di un raro uso impressionista della scrittura, che costringe il lettore ad avvicinarsi a quella stessa “verità” che il protagonista della storia sta scoprendo: e in effetti è di questo che si tratta, di attenzioni percettive che i giovani di Paulsen improvvisamente sentono attivarsi, come nuovo stadio del loro essere.

 

Rendersi conto di questa densità presente in ciò che li circonda è già un passo verso un modo di sentire ed esistere differente, che porta tutto a farsi più vero e vivo. Si tratta chiaramente di attimi iniziatici, e, caso abbastanza raro, i ragazzi ne sono subito consapevoli. Un momento quasi canonico, regolare e comune a queste storie, è la riflessione che i protagonisti fanno su se stessi appena dopo la prima fusione con la natura: “Aveva imparato a riconoscere la direzione del vento solo dal colore che prendeva il lago. Era cresciuto, aveva raggiunto una nuova consapevolezza. Era come se il suo corpo e la sua mente si fossero sintonizzati sulla stessa frequenza e avessero raggiunto un accordo mai stretto prima d’allora. Aveva il pieno controllo dei propri sensi.” (da Al limite estremo), oppure: “…i due remi si muovevano come se fossero una cosa sola. Adesso la canoa era spinta da una forza quasi consapevole, e Sue capì che nulla sarebbe mai più stato come prima: lei non sarebbe ritornata ad essere la Sue del passato, e ne fu felice.” (da Tracce). Gli esempi si potrebbero moltiplicare, tanta è l’attenzione che Paulsen dedica a questo fenomeno; e lo fa molto a ragione, visto che la coscienza della propria crescita è praticamente sparita dalla nostra società “sempreadolescente”, che ha voluto espellere i riti iniziatici, da considerarsi ormai primitivi e inutili.

 

 

C’è almeno un altro ingrediente oggi tabù che viene recuperato dagli antichi riti iniziatici, e fa da base ad alcuni romanzi: è la totale solitudine fisica, che ha la sua realizzazione più netta nella saga di Brian (Al limite estremo, L’inverno di Brian più altri tre volumi non tradotti in italiano ), in cui viene messo in scena un nuovo Robinson. Precipitato con un piccolo aereo in qualche zona disabitata della tundra canadese dopo la morte del pilota, Brian si rende conto che nessun soccorso potrà arrivare a riportarlo alla civiltà, e rinasce, dopo diverse quasi morti, tra nostalgia e utopia, come uomo dei boschi, a metà tra Adamo e il Thoureau del Walden. Imparerà da solo a sopravvivere, con i soli insegnamenti della natura e dei propri errori; ripercorrerà gli stadi dello sviluppo umano, riuscirà a costruirsi utensili, indumenti e armi, ad allevare, a cacciare, a scuoiare, a vivere in totale sintonia col paradiso che ha a disposizione, fino a entrare direttamente in contatto con la mitologia americana: come i Padri Pellegrini si lasciarono alle spalle le bassezze della vecchia Europa per ricominciare nel Nuovo Mondo, così Brian si distacca pian piano dai vigliacchi litigi dei genitori e dalle piccole preoccupazioni cittadine, e può affrontare da solo prima la disperazione per quanto ha perduto, poi la libertà della wilderness, e sperimentare nuovi valori, testare sensibilità rinate, dedicarsi, certo tra mille pericoli, alla costruzione di se stesso. C’è in questa visione anche un mito nostalgico, tutto americano, di ritorno alla natura e alle radici, al buon vecchio mondo ormai andato: l’altra modalità di apprendimento infatti, anche questa assolutamente fuori moda, è rappresentata dalla figura del vecchio, per lo più esterno alla società, che si offre come guida sciamanica, legato com’è alle energie segrete della natura.

 

Ne Il figlio dei ghiacci il giovane eschimese Russel, insoddisfatto di sé, lascia le moderne comodità del paese per farsi iniziare dal vecchio cieco, l’unico che ancora vive alla maniera degli antenati e che non ha ceduto un millimetro al progresso. Il passaggio di conoscenze avverrà tramite un racconto ipnotico, una sorta di trance, di collegamento ancestrale, in cui il ragazzo verrà messo direttamente davanti al passato del proprio popolo. Non è raro che nelle sue opere Paulsen faccia incrociare e metta in comunicazione la storia vera del protagonista con le storie finte, narrate o immaginate. Portata a termine la sua ultima formazione, il vecchio, come accade in tante storie di indiani, chiede di essere accompagnato nella morte che sente arrivare, e lascia poi Russell al suo viaggio solitario.

 

L’anziano non è il solo tramite adottato da Paulsen, che lo sostituisce però con personaggi comunque slacciati dalla civiltà, maestri anch’essi profondamente ancorati alla natura: è il caso di L’uomo delle volpi, un reduce di guerra che vive isolato nei boschi, a metà tra animale e santo; ma anche dei due attempati figli dei fiori che istradano Terry in Lungo la strada e lo conducono lontano dalle disarmonie della ipocrita e corrotta vita di città.

 

I luoghi remoti e incontaminati, liberi da presenze famigliari, sconfinati, fuori dal tempo e meravigliosi, in quanto spazi primigeni, sono scenari perfetti per queste occasioni, in cui si attua un vero panteismo quasi sacro, in cui anche il lettore si sente parte di un tutto più grande.

 

Leggendo di seguito tutti questi romanzi, ci si accorge che una delle parole, anzi uno dei temi più frequenti in Paulsen è “bellezza”. Ad un certo punto, davvero come d’incanto, la semplicità del concetto di bello si manifesta nitida, e un certo taglio di luce, un riflesso sulla neve, una geometria nei rami colpisce il protagonista come un evento metafisico. Ha luogo così un vero rapporto sentimentale col paesaggio, basato sullo stupore, sull’illuminazione, sulla raggiunta unità tra natura e anima. Credo sia un fatto a metà tra il trascendente e il filosofico, apparentemente inconciliabile rispetto alla nostra modernità, ma in realtà davvero vicino al sentire dei ragazzi, e che sarebbe sanissimo in qualche modo recuperare e reinserire nei percorsi formativi . Vedere la bellezza è come riconoscere una propria nuova, appena guadagnata, nobiltà interiore, e forse l’esempio più evidente e dichiarato è La cerva bianca: John vive coi nonni in una fattoria isolata, dopo aver perso i genitori. Il nonno, che lo ha abituato sin da piccolo alla vita nel bosco e alla caccia, sta morendo, e gli affida la prima battuta solitaria, più per necessità che per iniziarlo: “Uccidere non ti fa diventare uomo. Noi ci procuriamo la carne, ecco tutto.” Nel bosco innevato John incrocia una cerva bianca, l’ha a tiro, ma dentro di lui succede qualcosa. Abbassa il fucile e inizia a seguirla, e lei si fa inseguire, quasi lo aspettasse, giorno e notte, senza tregua, come un duello amoroso, inspiegabile e irresistibile, con le tracce sulla neve a separarli e a unirli. “… lasciò qualcosa in John, un’immagine di bellezza che gli rimase impressa nella mente, come una figura che ci resta negli occhi quando li chiudiamo, abbagliante”. Al ritorno alla fattoria, a mani vuote, il ragazzo prova a spiegare quello che gli è successo: “- Una cosa è cambiata, durante la caccia. Anzi, è cambiato tutto, così l’ho inseguita ma non le ho sparato. – I nonni non dissero nulla, aspettarono. – Ho camminato per due giorni e poi l’ho toccata. Due giorni e una notte. E dopo averla toccata è cambiato tutto- ”. Il bosco innevato non è solo uno scenario, ma è chiaramente un attore di questa come di altre storie, con il suo silenzio assoluto e irreale; e lo è, per portare un altro esempio, anche il mare che inghiotte David e la sua barca a vela in Alla deriva, a prolungare la missione del ragazzo: spargere tra le onde le ceneri dell’amato zio-maestro.

 

Certi spazi permettono, o impongono, una fusione radicale, sono dominanti e simbolici, e all’uomo non resta che adeguarsi, conquistato, e minimo al confronto. Un’altra poetica di Paulsen è dunque quella dei luoghi, e ricorda moltissimo una caratterizzazione tipicamente americana degli spazi, veri protagonisti nella pittura e nel cinema, al punto che si potrebbe anche parlare di “archetipi ambientali”: il paesaggio è quasi un’arte religiosa tutta giocata sullo stupore, come se fosse visto per la prima volta, in Paulsen come nei western, nella pittura Luminista come nelle giungle metropolitane dei noir. L’estetica di riferimento è quella del sublime, che tende all’infinito e rimpicciolisce lo spettatore, pur inserendolo totalmente nell’ambiente. E allora tutto appare fuori misura, irraggiungibile, enorme, e credo che vengano da qui persino quegli animali giganteschi che popolano le storie del nostro autore: galli grossi quanto aquile, maiali immensi, gatti che sembrano cani da pastore, vacche e cavalli di dimensioni mitiche. C’è un romanzo, davvero troppo poco noto, in cui Paulsen riesce a unire questo carattere con un’ilarità trascinante e con un effetto nostalgico struggente, l’autobiografia d’infanzia con Le avventure di Tom Sawyer. È La mia indimenticabile estate con Harris, in cui una stagione dai parenti di campagna trasforma le giornate del protagonista undicenne e del tremendo cugino in esilaranti gesta leggendarie: “I nostri nemici se ne stavano ignari delle nostre intenzioni, o almeno così pensavo, e grugnivano felici, sepolti in una montagna di fango con il muso impiastricciato di sbobba e lo stomaco che borbottava. C’erano tre scrofe in un recinto, un maschio in un altro, e un terzo conteneva una femmina e i suoi dieci porcellini (…) – Guardali – mi sussurrò Harris mentre partivamo all’assalto. – Quegli sporchi musi gialli comunisti se ne stanno stesi laggiù come se fossero i padroni del mondo. – Feci di sì con la testa. – Sporchi comunisti!”

 

Ancora una volta la natura rappresenta la vita, la meraviglia, lo spasso, il fare, e il contatto con ciò che è autentico, e si contrappone senza sfumature alla città, da cui provengono le molte degenerazioni che hanno fatto dimenticare i ritmi e le nobili difficoltà delle origini.

 

Paulsen potrebbe essere facilmente accusato di antimodernismo e di luddismo, forse anche di misantropia, visti i ritratti della società che tratteggia quasi sempre sullo sfondo, e certamente anche la quasi totale assenza di donne nei suoi libri si presta a veloci, ma credo sterili, se non sciocchi, attacchi. Di certo tutti questi elementi, il ritorno all’Eden come rinascita possibile, la città come caduta e peccato, la ricerca solitaria, appartengono ad un certo immaginario ben definito: l’americanità e il legame con questo serbatoio culturale e con certe soluzioni formali è infatti un’altra scoperta che attende chi ha la fortuna di ripercorrere l’opera di Paulsen. Le citazioni esplicite sono rarissime, ma che il nostro sia un divoratore di letteratura statunitense è chiarissimo, e a dimostrarlo ci sono dei veri, e molto riusciti, esercizi di stile sui canoni americani: muovendosi da un genere all’altro, con spiazzante abilità mimetica e linguistica, è capace di diventare di volta in volta uno scrittore diverso. Certo, nei titoli più direttamente avventurosi, e nelle storie di cani, c’è molto London, e senz’altro il ritorno idilliaco alla natura del Walden di Thoureau. Ma c’è anche, in John della notte e Sarny, la “slave narrative”, la memorialistica degli schiavi neri che ci ha informato su quanto accadeva prima della Guerra Civile; c’è, sulla Guerra Civile, Un cuore da soldato, che ricalca l’impressionismo e i temi di Crane e ricorda Bierce; ci sono riferimenti, penso soprattutto a Il figlio dei ghiacci e a Tracce, alle leggende dei Nativi; ci sono, sparsi nelle storie brevi, i “tall tales”, le spacconate tipiche della frontiera; c’è evidentemente, in Lungo la strada, Kerouac e il viaggio on the road; qualcosa, nella ricerca ipnotica de La cerva bianca fa pensare alla balena bianca di Melville, il cui incipit (“Chiamatemi Ismele…”) è invece citato direttamente in un titolo mai tradotto, Call me Francis Tucker, personaggio che ha dato vita a una saga; c’è addirittura, in Storie, una Spoon River, e molto Hemingway, dal quale sembra tratto anche, per stile, personaggi e vicende, Oltre il confine.

 

Da questa letteratura Paulsen ha senz’altro ereditato anche la schiettezza nel dire e l’indagine sui limiti dell’uomo: non evita mai di affrontare per esempio la malattia e la morte, umana e animale, anche nei suoi aspetti più politicamente scorretti e dolorosi; certe scene descritte, come le operazioni di macellazione delle bestie in fattoria, o dei soldati sugli scenari di guerra, non lasciano nulla all’immaginazione, e la dichiarazione sottostante pare sempre: “ragazzi, questa è la vita.” In particolare nei libri di guerra, sia totalmente dedicati ad essa (Un cuore da soldato; Tracce; Sarny), sia toccati dallo spettro bellico che torna incarnato nei disturbi dei reduci (L’uomo delle volpi; Dancing Carl; Lungo la strada; Oltre il confine; La stanza d’inverno) le parole sono chiarissime, quasi delle pietre impossibili da schivare. In Tracce, un audace e poetico esperimento pensato per ragazzi quasi adulti, la dichiarazione è spietata: il libro è diviso in quattro diverse iniziazioni adolescenziali che si intrecciano senza mai incontrarsi, e in quattro “canti di guerra”, rapidi e densissimi episodi tratti dalla guerra in Vietnam, dalla Seconda Guerra Mondiale, dalla Corea, dal futuro. Tre vite su quattro, di questi normali giovani in trasformazione, hanno successo; ma quello che accade nei “canti di guerra” bilancia le vittorie, anzi le vanifica, e l’ultima accusa verso la nostra società prospetta un piccolo CLIC che “durerà una frazione infinitesimale di secondo perché tutto si dissolverà subito in un’esplosione di luce più abbagliante persino del sole”.

 

La critica a certi adulti è in realtà una costante sotterranea, mai esibita a lungo, e quasi indispensabile per dare il via all’avventura. Questa scena iniziale, tra l’altro autobiografica, apre molti libri di Paulsen, come La mia indimenticabile estate con Harris: “Non avrei mai incontrato Harris se i miei non avessero consumato quantità eccessive di whisky “Four Roses”. Per quanto ricordo della mia infanzia, c’è sempre stata una bottiglia di whisky sul tavolo di casa (…) La mia casa diventò un luogo impossibile, e io venivo ospitato sempre più spesso da qualche parente.”

 

La disposizione all’avventura, proprio come in London, in Paulsen è una risposta alle intemperie che la vita prepara, e un prendersi in mano le responsabilità di presente e futuro. Per campare, sin da quand’era piccolissimo, anche lui si è dato a mille mestieri, e ha messo insieme un curriculum di tutto rispetto: è passato dai birilli al bowling a un’industria aerospaziale, dall’esercito alla distribuzione dei giornali, poi è stato contadino, attore, carpentiere, manovale nei ranch, camionista, operaio, demolitore, trapper, marinaio, allevatore, scrittore…
Quello che non torna, però, e l’interrogativo pedagogico che solleva è bizzarro e degno di attenzione, è come dalle tante infanzie e adolescenze dorate e prolungate cui siamo assuefatti scaturiscano spesso, in realtà, adulti aridi; mentre dopo queste obbligate e terribili crescite precoci che rubano l’infanzia ci si ritrovi, settantenni, a giocare su una slitta coi cani.

 

 

Il libri di Gary Paulsen

  • Tra parentesi è indicato l’anno della prima edizione in lingua originale
  • L’uomo delle volpi, Mondadori SuperJunior, 1999 (1977)
  • Dancing Carl, Mondadori Shorts, 1999 (1983)
  • La cerva bianca, Mondadori Junior Avventura, 1994 (1984)
  • Il figlio dei ghiacci, Mondadori Junior Avventura, 1994 (1985)
  • Tracce, Mondadori Supertrend, 1996 (1986)
  • Oltre il confine, Mondadori Junior +10, 1997 (1987)
  • Al limite estremo, Mondadori Junior Avventura, 1995 (1987)
  • La stanza d’inverno, Mondadori Shorts, 2001 (1989)
  • Storie, Mondadori Shorts, 2002 (1989)
  • Alla deriva, Mondadori Junior Avventura, 1996 (1989)
  • Il padrone della scuola, Mondadori Shorts, 1997 (1990)
  • La mia indimenticabile estate con Harris, Piemme Il battello a vapore Serie Oro, 1997 (1993)
  • John della notte, Mondadori Junior Gaia, 1996 (1993)
  • Lungo la strada, Mondadori SuperJunior, 1995 (1994)
  • La tenda dell’abominio, Piemme Il battello a vapore, 1999 (1995)
  • L’inverno di Brian, Mondadori Junior Avventura, 1999 (1996)
  • Io e Cookie, Mondadori Shorts, 1997 (1996)
  • Sarny, Mondadori Junior Gaia, 1999 (1997)
  •  Il mio amico Harold, Mondadori Shorts, 1998 (1997)
  • I cani della mia vita, Mondadori Shorts, 2003 (1998)
  • Un cuore da soldato, Mondadori Shorts, 2004 (1998)
  • Il pattinatore, Mondadori Shorts, 1999
  • Glass Cafè, Mondadori Shorts, 2000 (2000)