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L’assenza e l’impossibile. Conversazione fra Gabriella Giandelli e Sophie Van ...

L’assenza e l’impossibile. Conversazione fra Gabriella Giandelli e Sophie Van der Linden

Questo periodo di crisi globale ci spinge a farci domande scomode, profonde ed essenziali. Ci interroghiamo sul futuro, sulle cose che abbiamo perso e quelle che abbiamo ritrovato. Se risposte e previsioni possono arrivare solo dalla scienza, l’arte può invece aprire uno spazio di dialogo per fare luce su alcune delle domande che abbiamo bisogno di farci.

Double Face è uno spazio di scambio tra autori e autrici francesi e italiani che lavorano con le immagini. Un ciclo di conversazioni che chiede a illustratrici, fumettisti, esperti e scrittrici di ragionare sui nodi del presente a partire da un’immagine.

Double Face è un progetto di Hamelin Associazione Culturale, con il sostegno di Institut Français Italia

 

Chi scrive è un fantasma: c’è e non c’è, si nasconde nel testo, lo abita o lo infesta come una presenza. Gabriella Giandelli è una voce ormai iconica dell’illustrazione e del fumetto italiano; Sophie Van Der Linden è una scrittrice di romanzi e una delle maggiori esperte europee di albo illustrato. Entrambe si muovono al confine tra immagine e parola, ed entrambe sono allenate tanto a inventare storie quanto a lavorare sulle storie degli altri. In questo dialogo si trovano sulla linea di confine tra le storie e chi le scrive, per rispondere a una domanda impossibile: scrivere è un modo di sopravvivere all’assenza?

Gabriella Giandelli: La questione dell’assenza è per me cruciale. Se devo palare della mia poetica, credo che l’assenza sia la definizione più precisa del sentimento che mi spinge a disegnare. Disegnare è il tentativo di colmare un’assenza che si traduce poi nel disegno stesso. Noi siamo il prodotto di un’assenza… di recente ho avuto dei lutti e ne ho parlato molto. Credo che ciò che ci lascia o che non c’è ci rende ciò che siamo, e tradurre questo sentimento nel disegno gli dà ricchezza. L’assenza è fondamentale, che sia mistero, perdita, o dolore. Come diceva Bertolucci: “assenza più acuta presenza”.

 

©Gabriella Giandelli

 

Sophie Van Der Linden: Non penso di avere mai riflettuto veramente sulla nozione di assenza. Ma adesso questa si interseca perfettamente con un progetto in corso, in cui invece è crudelmente presente. Al cuore del mio lavoro c’è una questione, che tocca quella dell’assenza: l’impossibile. Scrivere è sempre tendere verso un impossibile, e l’impossibile per me ha preso forma attraverso l’immagine. Ho disegnato molto, da bambina fino all’adolescenza; a un certo punto ho rinunciato, perché non riuscivo a tradurre attraverso il disegno quello che avevo in testa. Allora mi sono rivolta alla scrittura, una scrittura che tenta sempre di andare verso l’immagine e quindi verso l’impossibile, perché il testo non potrà mai restituire un’immagine. Il legame fra pittura e poesia è veramente alla base della mia ricerca di autrice, ma anche del mio lavoro critico sull’albo illustrato. E più avanzo nella scrittura, più ho l’impressione che funzioni con questo binomio. Pochi giorni fa sono tornata alla Galerie d’Orsay, dopo il lungo tempo in cui non abbiamo potuto frequentare i musei. C’era un bellissimo quadro di Monet, I pioppi, che in realtà non rappresenta i pioppi ma il vento: perfetto per parlare dell’invisibile e dell’assenza.
Ecco, dopo questa visita ho avuto l’impressione che improvvisamente la parte del mio cervello che si dedica alla scrittura si sia riossigenata e abbia iniziato a funzionare a tutta velocità. Alla fine, è l’immagine che nutre la mia scrittura attraverso l’impossibile.

 

 

Claude Monet, I pioppi, 1891-92

 

 

GG: Vorrei restare sul passaggio fra scrittura e immagine. A volte quando mi trovo a dover creare illustrazioni per testi esistenti, penso che le mie immagini non siano necessarie. Credo che un’immagine possa anche togliere invece che aggiungere: la lettura in certi casi ha una miriade di soluzioni che si diramano a livello della fruizione personale soggettiva, mentre l’immagine tende a chiudere un immaginario. Questo accade alcune volte; altre invece penso sia utile che ci sia il mio lavoro accanto a quello di chi scrive, e in questi casi il servizio migliore che posso fare è mettermi nella stessa condizione di chi legge… Non so se capita anche a te, ma quando leggo un libro che mi cattura molto tendo a immaginare qualcosa di più, magari del personaggio, o qualcosa che non è scritto ma immagino sia avvenuto. Ecco, questo è ciò che cerco di mettere nel disegno, così si stabilisce un possibile dialogo con lo scrittore. Altrimenti sono solo qualcuno che traduce. Il lavoro deve essere anche mio, e quando vado in questa direzione il risultato ha una sua armonia. Non è così scontato… Facendo fumetto il testo e le immagini si leggono insieme ma è un altro tipo di lavoro; il testo scritto invece non ha sempre bisogno di essere corredato d’immagine, è un discorso delicato. 

 

SVDL: Come critica quello che dici è proprio ciò che cerco in un’illustrazione: la capacità di sorprendere, di fare un passo in avanti in relazione a quello che il testo stesso può già offrire a livello visuale. Per tornare alla questione dell’assenza, per me è molto legata allo sguardo sul luogo. Il romanzo a cui sto lavorando [ancora inedito ndr], si intitola La fine del paesaggio. Nel rapporto con i luoghi e il paesaggio non cerco qualcosa “in più”, ma qualcosa “in meno”. Cerco ciò che è cavo, provo a rendere bianco un luogo, dicendone quanto serve perché il lettore possa creare la sua impronta, un po’ come in un’incisione. Abbozzo degli elementi incavati, affinché si possa avere la libertà dell’immagine mentale di cui parlavi. Questo vale per il paesaggio, ma anche per la temporalità.
Per
Après Costantinople, una vicenda che si svolge nei Balcani a metà del XIX secolo, avevo iniziato a lavorare con precisione sui fatti, sulla storia del luogo, che poi la mia storia ha completamente cancellato. Restano dei rumori, degli odori, cose che arrivano da quella realtà, che era molto dura, fatta di guerre intestine nel cuore dell’impero. Ma sono eco che vengono da lontano, come effluvi. Nonostante la ricerca storica e il lavoro enorme di documentazione, non parlo quasi per niente del contesto, l’ho completamente “invisibilizzato”. Questo sguardo sul luogo alla fine è quello che cerco di suggerire attraverso un lavoro in sottrazione.

 

GG: Quando hai detto impronta, io ho pensato a una cosa che mi accorgo di fare quando disegno i luoghi: con la tecnica che uso da sempre, le matite colorate, eseguo dei passaggi ripetitivi sulle campiture di parte del disegno. Quando voglio descrivere con precisione un ambiente non posso fare a meno di aggiungere una patina di invecchiatura, di sporco; è come se volessi istintivamente rendere l’idea che c’è stato un passaggio. Non vediamo chi è passato ma sappiamo che ha lasciato un sedimento. Di recente ho dovuto parlare di come disegno le città e mi sono resa conto che ciò che nei miei disegni è vuoto, io lo percepisco molto pieno… Se raffiguro l’angolo di una via vuota, spero che chi lo guarda possa immaginare, per come l’ho disegnato, il passaggio di tantissime anime, di personaggi, attraverso una sorta di pulviscolo, di presenza che rimane attaccata agli infissi, alle piastrelle… Ultimamente volevo disegnare un ambiente molto freddo e alla fine non ce l’ho fatta, ho dovuto aggiungere questi sedimenti che lascio in giro, come la pelle che si stacca.

 

©Gabriella Giandelli

 

SVDL: Le tue parole mi fanno pensare ai fantasmi. Non so per te, ma per me sono un ritorno del fascino adolescenziale per il film di Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino; mi sembra di vedere qualcosa di simile nel tuo Interiorae dove c’è un personaggio che viene visto solo dai bambini. È esattamente quello che accade nel film di Wenders, solo i bambini riescono a vedere gli angeli. La protagonista del mio ultimo romanzo è una ragazza che muore annegata e torna ad abitare e raccontare i luoghi in cui aveva vissuto. Il motivo per cui ho pensato a questo personaggio-narratore fantasma è la dimensione del filtro, come gli angeli di Wenders che si nutrivano dei pensieri delle persone verso cui si protendevano. Da loro ho preso anche l’idea di mobilità aerea, di avere un personaggio completamente etereo che non ha alcuna presenza carnale. Il fantasma è il narratore, ma simbolizza soprattutto lo scrittore. Noi scrittori siamo quelli che ascoltano, scriviamo i pensieri degli uni e degli altri senza essere visti, senza esistenza. Possiamo sentire, osservare, documentarci, ma non possiamo intervenire mai. Dunque, il fantasma-narratore è un modo per interrogare la posizione e i limiti, ancora una volta l’impossibile dello scrittore, che ha la capacità di essere dentro un caffè e contemporaneamente sulla collina, ma che in nessun momento e per nessuno può avere consistenza.

 

GG: È molto bello perché siamo noi i fantasmi, noi che raccontiamo. A me piace molto l’inizio di quel film, quando gli angeli guardano Alexanderplatz e sentono i pensieri della gente che passa; c’è molta ansia, molto dramma nei pensieri, molta paura. Loro li ascoltano, e già quello è raccontare. Ho disegnato alcuni fumetti con un uomo tatuato; lui per me era il narratore: visibile ma non comprensibile, le persone non lo capivano, sembrava venire da un altro pianeta e quindi non lo avvicinavano. E lui era, per me che volevo raccontare, il mio aiutante, prendeva forma al posto mio e raccontava quello che succedeva nella storia. Credo che gli scrittori, coloro che hanno concepito ciò che viene narrato sulle pagine, siano sempre la cosa che non vedi… la cosa che c’è, ma senza esserci mai. 


L’uso dei fantasmi è anche molto metaforico, in alcuni momenti, della condizione di chi racconta storie; e comunque anche per me questi personaggi sono legati all’infanzia, all’amico immaginario, un amico solo tuo con cui parlare. Io temo di farlo sempre più spesso, anche adesso, dimenticandomi che c’è qualcuno presente. C’è un film del 1950 di Henry Koster, Harvey, in cui il protagonista, James Stewart, ha un coniglio come amico immaginario… Lui però è un adulto, e ovviamente la cosa ha dei risvolti un po’ inquietanti per gli altri…È un film molto bello. Per quanto mi riguarda c’è anche qui una ricerca d’aiuto del proprio amico immaginario nel momento in cui si affronta la narrazione; io l’ho sempre fatto.

 

©Gabriella Giandelli

 

SVDL: Un’altra questione veramente importante è quella della distanza, in tutti i suoi elementi, tranne forse quello chilometrico. In Après Costantinople e De terre et de mer i due personaggi fondamentali sono quelli femminili, e proprio perché sono i più importanti li metto in secondo piano, con moltissimi misteri che si disegnano attorno a loro. Quello che rimarca la loro importanza è la distanza che prendono dalla narrazione. La distanza è anche una necessità nella scrittura in relazione a un oggetto. Tutti i luoghi in cui si svolge l’azione dei miei libri sono lontani nel tempo. Per esempio, l’isola in cui si svolge De terre et de mer è una isola che ho conosciuto molto bene nella quale non sono tornata per moltissimo tempo. Questo è stato il presupposto necessario per poterne scrivere. Il racconto di un posto in cui ci si trova prende la forma di un resoconto, una cartolina, ma il lavoro dell’immaginario, della scrittura, dell’atmosfera, non può stabilirsi che nella distanza, nell’allontanamento temporale. L’isola di De terre et de mer l’ho ricostruita in modo diverso da come è nella realtà. Per tutto il tempo della stesura avevo una sola immagine dell’isola con me, una vecchia foto poco visibile; nessuna mappa o cartina. Dopo aver pubblicato il libro ho rivisto la pianta dell’isola e mi sono resa conto di aver spostato tutti gli elementi:  anche questa è una proiezione dell’immaginario, proprio come dicevi tu.

GG: La distanza c’entra con il guardare e l’essere guardati. In Interiorae ho costruito un’idea di palazzo che avesse una natura organica, una sua vita propria rappresentata dall’entità sotterranea che lo mantiene in vita raccogliendo la memoria delle persone che lo abitano. Ma è anche un metatesto, qualcosa di non scritto che volevo rendere evidente: questo palazzo, le sue finestre, sono sempre punti di osservazione; noi guardiamo, ma siamo anche visti da chi ci osserva, intenzionalmente o casualmente… Nel narrare le figure familiari presenti nel palazzo ho usato dei cliché, perché penso che quando qualcuno ci guarda, non avendo che i pochi elementi inseriti nel quadro della finestra, non possa far altro che immaginarsi la nostra vita utilizzando degli stereotipi.

 

SVDL: Mi interessava tornare poi su una cosa che dicevi prima; parlavi di voci. Trovo molto interessante nel fumetto (e nel tuo lavoro) l’importanza della voce. Non ci sono didascalie, solo le voci dei personaggi che fanno avanzare la narrazione. Ma ci sono anche le canzoni. E mi chiedo se anche questo non abbia a che vedere con l’impossibile: nel fumetto ci sono testo e immagine, è un’arte totale, ma anche il suono è essenziale.

 

GG: A volte è come per il cinema. Quando alla scuola di cinema preparavo sceneggiature o storyboard c’era sempre il problema che, abituata alla scrittura, quello che veniva recitato dagli attori spesso risultava “troppo scritto”. Anche nel fumetto le voci in realtà sono “voci di carta”. Se provassimo a farli recitare, molti fumetti risulterebbero strani come scrittura, perché il testo non è necessariamente realistico. Certi dialoghi messi in bocca a un attore suonano ridondanti, poco veritieri e poco eleganti, mentre sulla carta funzionano. È sempre un gioco di apparenza. 

 

SVDL: La parola è una presenza-assenza dello scritto, e anche se spesso diciamo che i balloon nel fumetto sono come colonne sonore è chiaro che non saranno mai come le colonne sonore reali. D’altra parte, nessun dialogo scritto può accontentarsi di riprodurre estensivamente una conversazione che avviene nella realtà. Mi intriga in Interiorae lo spazio delle canzoni, le cui parole appaiono “messe in scena”, in una azione, in più vignette, con dei personaggi. Così l’assenza della musica associata alle parole è ancora più sentita. Si fa appello alla melodia, all’atmosfera della musica, ma ci si concentra sulle parole, sull’eco che danno alla scena, perché sono dissociate e reinterpretate.

 

GG: È una lettura molto giusta, ho cercato di inserire l’eco di collegamenti a una musica che il lettore può cercare dentro di sé, perché le parole che legge portano con sé anche un ambiente sonoro.

 

 

SVDL: Nei miei racconti, sempre un po’ malinconici, credo che l’attesa sia lo spazio della speranza. Ciò che non è ancora avvenuto rimane nel regno di tutte le possibilità. Si tratta di un’apertura importante, dal punto di vista narrativo. Finché Henri l’amante non ha ancora avuto la sua conversazione con Youna, si può immaginare tutto del suo silenzio-assenza. Finché il pittore non sarà liberato dalla sua prigionia, si può immaginare una continuazione del suo viaggio. Penso sia per questo che i finali dei miei romanzi sono molto spesso aperti. Sospendono la storia senza chiuderla. Torniamo ancora all’assenza come passaggio di consegne al lettore, che può quindi azionare la propria macchina per immaginare. Anche se in realtà il terreno è abbastanza tracciato, in senso letterale, perché nonostante tutto semino indizi sul possibile futuro: l’imminenza della prima guerra mondiale in De terre et de mer, la consacrazione del pittore attraverso gli estratti di cataloghi in Après Constantinople. L’assenza non è mai un vuoto. È una chiamata.

 

 

GG: Sono molto in sintonia con quello che dici. L’attesa di qualcosa che non c’è è anche a speranza di riempire quel vuoto con qualcosa o qualcuno che desideriamo appaia. Che nella storia viene cercato ma non si trova facilmente. Altre volte però nel mio lavoro c’è un vuoto che non attende ma che teme. Intendo dire che ci sono delle assenze, in alcuni miei disegni, che sono lì per suscitare paura, per raccontare il male che non può essere rappresentato ma che incombe. Ho paura di disegnare scene di violenza, e quando mi trovo nella necessità di farlo sento che scegliere di non rappresentare il male, ma lasciare che si possa immaginare, abbia molta forza a livello comunicativo. Anche per il dolore è così. Tempo fa ho iniziato un lavoro che giace solo abbozzato nella mia cassettiera (uno dei tanti…), ispirato a un racconto di Raymond Carver: una madre scrive una lettera e racconta la sua vita in fuga da un figlio malvagio. Ha partorito ed educato una persona cattiva, di cui, seppur madre, ha paura. Nella lettera racconta episodi terribili, uccisioni di gattini, pestaggi e torture ai compagni… Volevo tantissimo trarre un fumetto da questo racconto e ho cercato di farlo senza mai descrivere/disegnare il figlio o le scene odiose mentre accadevano. Ma mi sono arenata, ho capito che una storia intera così non poteva reggere. Ecco, un certo tipo di vuoto nel mio lavoro è un’attesa, sì, ma di qualcosa di terribile che potrebbe arrivare. La morte, credo.

 

Bibliografia


Gabriella Giandelli, Interiorae, Coconino Press, 2010
Sophie Van Der Linden, La fabrique du monde, Buchet-Chastel, 2013
Sophie Van Der Linden, L’incertitude de l’aube, Buchet-Chastel, 2014
Sophie Van Der Linden, De terre et de mer, Buchet-Chastel, 2016
Sophie Van Der Linden, Après Constantinople, Gallimard, 2019

 

 

Gabriella Giandelli (Milano, 1963) è una fumettista e illustratrice italiana. Nel 1984 pubblica i suoi primi fumetti sulla rivista “Alter Alter” e successivamente su “Frigidaire”, “Dolce Vita”, “Strapazin” e altre riviste. Ha pubblicato libri a fumetti per editori italiani e stranieri, fra cui  Interiorae (Coconino Press, 2010), Sotto Le foglie (Coconino Press, 2008), Lontano (Canicola, 2013). Negli ultimi anni ha pubblicato albi illustrati. Collabora con  testate giornalistiche come “La Repubblica” e “Internazionale”.

 

Sophie Van der Linden (Parigi, 1973) è una scrittrice ed esperta di albi illustrati e letteratura per l’infanzia. Ha pubblicato per Buchet-Chastel i romanzi La fabrique du monde (2013), L’incertitude de l’aube (2014) De terre et de mer (2016) e, per i tipi di Gallimard, Après Costantinople (2019). Nel 2000 firma la prima monografia dedicata all’illustratore Claude Ponti, per la quale ha ricevuto il premio per la critica dell’Institut international Charles-Perrault. Fra i suoi saggi critici sugli albi illustrati ci sono Lire L’album (L’atelier du poisson soluble, 2006), Album[s] (Editions de facto, 2013), Tout sur la littérature jeunesse (Gallimard, 2021).