Cosa proporre a bambine e bambini che iniziano a leggere da soli
Intervista a Frances Hardinge
di Barbara Servidori
Frances Hardinge è arrivata in Italia come un fulmine a ciel sereno nel settembre del 2016 con L’albero delle bugie, un grande romanzo che anche nel suo paese, dove era già ben nota per sei precedenti titoli, ha davvero sparigliato le carte e l’ha lanciata tra i grandi: ha infatti vinto non solo il prestigioso Costa Award ragazzi, ma anche il Costa book of the year su tutte le categorie, onore toccato in precedenza solo ad un gigante assoluto come Philip Pullman. Nello stesso anno è arrivato alla shortlist della Carnegie Medal il romanzo successivo, Cuckoo song, appena tradotto sempre da Mondadori col titolo Una ragazza senza ricordi. Chissà che ora non si approfitti per recuperare il suo esordio, Volo di notte, che Fabbri aveva portato dieci anni fa e che era rimasto nascosto.
Hardinge, che si distingue per uno stile ricco costruito su un sovrapporsi di figure retoriche suggestive, e per lo scavo incessante nella psiche dei personaggi, non scrive propriamente per bambini (anche se sicuramente le va stretta l’etichetta di autrice per young adults con cui spesso viene presentata), ma ha un occhio, e una penna, capaci di avvicinare davvero l’infanzia nella sua essenza. In particolare, la sua indagine sembra insistere su quel momento speciale in cui la mente e il corpo delle bambine inizia a farsi contaminare da altre tracce e identità, sfumando nella preadolescenza. Di passaggio sono anche le ambientazioni, luoghi ed epoche in cui coesistono misteriosamente elementi che sembrano appartenere a mondi distanti tra loro anni luce. Il tramite privilegiato è il fantastico, in una modalità colta e molto sua, che riesce a intrecciare il fiabesco, il gotico, il mistery con uno sguardo magico sulla realtà, divenendo anche critica sociale e viatico a possibili nuovi io. La sua alta considerazione del lettore, e dell’infanzia tutta, prevede soprattutto una iniziazione alle libertà, un esplicitare la legittimità, e anzi la necessità, dell’abbandonare le richieste sociali, gli obblighi famigliari, i destini già decisi, per farsi se stessi.
Sull’infanzia
La lettura dei tuoi libri ci ha restituito una certa speranza rispetto allo scrivere per bambini: ci sono icone d’infanzia chiare e sempre più rare oggi, e c’è un modo di rivolgersi ai lettori giovani consapevole e alto. Il tuo stile è letterario, profondo, stratificato.
Quando pensi ai tuoi lettori, come te li immagini? A tuo avviso, cosa aggiungono i tuoi libri alla loro esperienza?
Mi sono trovata a scrivere per ragazzi per caso, perché ho un’amica più perspicace di me. Ho iniziato scrivendo racconti per adulti. Poi, all’università ho conosciuto Rhiannon Lassiter, un’autrice fastidiosamente brava, che ha pubblicato i primi libri prima dei vent’anni. Abbiamo formato un piccolo gruppo di scrittura, ognuna leggeva i racconti dell’altra, ed è stata lei a dirmi che le mie idee, il mio stile, le mie fiabe nere erano più adatte ai ragazzi che agli adulti. Con il suo commento in testa, ho riletto le storie che stavo scrivendo allora e ho pensato: “Bene, ora tutto torna”. Da quell’istante, la mia scrittura ha preso vita. Anche le parti che mi sembravano spoglie, banali e fiacche si sono aggiustate. Ho cambiato radicalmente il modo di vedere le cose e tutto ha funzionato meglio.
Se penso al pubblico per il quale scrivo, penso a me stessa da giovane. Ero una ragazza strana, studiosa, intelligente e incredibilmente timida, appassionata di storie misteriose e oscure, con un senso umoristico macabro nascosto. Cerco di scrivere storie che potrebbero piacerle o che non abbia mai letto prima. Ogni volta che ho un’idea, una parte del mio cervello pensa di continuo: Come posso rendere quest’idea più interessante, più originale? Cosa posso aggiungere? È compulsivo. Cerco anche di non banalizzare mai, perché sarebbe offensivo nei confronti dei miei lettori. Da ragazza, sapevo che gli adulti mi trattavano con sufficienza e presumo che lo sappiano anche molti dei miei lettori. Per questo, non voglio trattarli con la stessa condiscendenza. In genere, tendo a non imporre ai miei lettori messaggi particolari. Mi ritengo prima di tutto una narratrice. Nel momento in cui tocco temi importanti, provo a mostrarne la complessità. A volte, mi sforzo di spiegare idee che, a mio avviso, i miei lettori più giovani forse non conoscono, ma preferisco non semplificare troppo. Se mai volessi inserire dei messaggi nei miei libri, sarebbero del tipo: “Non esiste una sola ragione al mondo per trattare qualcuno in modo disumano”, oppure “Ragionate con la vostra testa. Non lasciate che qualcuno vi dica cosa pensare, neppure se a farlo sono io.”
Leggendo L’albero delle bugie e Una ragazza senza ricordi, si pensa: finalmente un romanzo. Un romanzo e basta, indipendentemente dal pubblico di riferimento. Qual è il senso del tuo scrivere per ragazzi?
Anche in futuro mi piacerebbe restare prevalentemente una scrittrice per ragazzi, perché scrivere per loro scatena la mia immaginazione. Dentro di me, convivono tutte le persone che sono e che sono stata, e provo entusiasmo a lasciar emergere quella che ero, al tempo in cui ero presa a decostruire il mondo e me stessa per vederli da altri punti di vista. Per molti versi, avere tredici anni è molto più faticoso che essere adulti! A quell’età, è più difficile evitare i problemi e si ha meno controllo sulla propria vita. Ricordo ancora che tutti quanti mi dicevano: “Sono gli anni migliori della tua vita,” e mi piangeva il cuore al pensiero che le cose sarebbero peggiorate (sono felice di dire che si sbagliavano). Alcuni adulti sembrano davvero pensare all’infanzia come a un dolce idillio inconsapevole, libero da problemi veri.
Ciononostante, non sono propensa a includere direttamente la mia infanzia nei libri che scrivo. Sarebbe fuori luogo rispetto alle strane ambientazioni delle mie storie! Però, attingo dal paesaggio emotivo che ricordo di quel periodo, per quanto questo si traduca in forme e metafore bizzarre. Per come la vedo io, le mie storie non parlano di me, anche se incanalano i miei ricordi per ottenere un maggior impatto emotivo. Io non sono il quadro, sono la pittura.
In ogni caso, il passare del tempo mi ha regalato una prospettiva diversa sui ricordi d’infanzia. Guardandomi indietro, mi rendo conto di essere stata una bambina troppo coscienziosa e apprensiva, di aver passato molto tempo a sentirmi in colpa e stressata per cose che non dipendevano da me. Vorrei poter dire a quella bambina di essere un po’ più gentile con se stessa.
Il fantastico
Per i tuoi libri hai scelto il fantastico, anzi un particolare modo di intendere il fantastico che si fonde con forza con nodi cruciali della realtà. Non è fantasy, non è realismo magico, è una forma tua che declini di volta in volta diversamente e che quasi ci mette di fronte a un’altra versione della realtà, che non è sovrannaturale. Pensi che questa modalità narrativa abbia qualche possibilità in più per toccare nel profondo i giovani lettori?
Che si scriva per ragazzi o per adulti, il fantasy e il realismo fantastico offrono la possibilità di comunicare stati psicologici profondi o di osservare il nostro mondo “come in uno specchio, in modo oscuro”. La maggior parte del fantasy mostra il ventre molle della realtà, o il suo lato oscuro. È un altro modo di interpretarla.
Talvolta, utilizzo gli elementi fantastici per riflettere i profondi cambiamenti fisici e psicologici che i miei personaggi sperimentano. In Una ragazza senza ricordi, Triss è irritata dalla sua nuova fame, dalla sua misteriosa perdita di peso e dagli aculei che a volte le spuntano al posto delle unghie. La maggior parte dei miei personaggi subisce cambiamenti un pochino meno sinistri, ma di certo Triss non è l’unica ragazza della sua età a essere sorpresa e spaventata dal proprio corpo. Allo stesso tempo, anche la sua mente sta cambiando e la sua vecchia identità non le corrisponde quasi più.
In generale, tanti miei libri contengono elementi fantastici, ma la loro natura fantastica varia di libro in libro. Una ragazza senza ricordi è più esplicitamente fantastico de L’albero delle bugie. L’albero delle bugie è più ambiguo, perché l’elemento fantasy è più sottile e potrebbe avere una spiegazione razionale. Un paio di altri miei libri sono ambientati in un mondo alternativo, ma non hanno nulla di soprannaturale. È sempre fantasy, ma non convenzionale.
È evidente che hai un serbatoio di conoscenze molto ricco e variegato. Leggendoti, ci vengono in mente Philip Pullman, Susan Cooper, Neil Gaiman, Diana Wynne Jones e molti altri.
Sono certa che gli autori che ho letto e mi sono stati letti da bambina hanno contribuito a dare forma alla mia immaginazione. Questi comprendevano Lewis Carroll, Richard Adams, Susan Cooper, Nicholas Fisk, Alan Garner, Leon Garfield, Catherine Storr, Peter Dickinson e Roald Dahl. Di certo, hanno avuto una certa influenza anche Terry Pratchett, Wilkie Collins, Douglas Adams, George Eliot e un’infinità di racconti del mistero, tra gli altri.
Il fiabesco
Tra gli ingredienti base del tuo fantastico ci sono anche i racconti popolari, le fiabe, le leggende. Perché pensi siano così importanti per gli esseri umani? E per i bambini, in particolare? Perché questa grande attenzione alle fiabe nere? Pensi che narrare la paura ai bambini abbia un ruolo determinante?
Le fiabe e le leggende popolari sono senza dubbio una fonte di ispirazione importante per alcuni miei libri, meno per altri. Una ragazza senza ricordi attinge alle antiche storie popolari di bambini scambiati alla nascita o lasciati dalle fate; alcune delle storie di vulcani in Gullstruck Island sono basate su leggende Maori. Quando visito un posto nuovo, non sento di averlo compreso a fondo, finché non ne conosco i miti e le leggende.
È difficile affermare “l’importanza” delle fiabe. Non si assumono vitamine tramite le fiabe, ma credo che senza saremmo più poveri. La strana poesia rarefatta degli accadimenti fiabeschi tocca una corda dentro di noi, in qualche modo. Nel loro modo bizzarro, sognante e spesso crudele, ci permettono di scrutare nel sottobosco oscuro della nostra anima collettiva. Gli esseri grotteschi che vi abitano – i cani con gli occhi grandi come ruote di carro, le streghe in una capanna dalle zampe di gallina, il cavaliere verde che si tiene la testa lì lì per staccarsi – esercitano uno strano potere sulla nostra immaginazione. L’atto di affrontarli e sconfiggerli ha peso e valore.
Quanto alle fiabe nere, erano sempre le più cupe a catturare la mia immaginazione e sono le stesse a ispirarmi ora. Non credo che la maggior parte dei bambini abbia problemi a leggerle, non più di quanti ne avessi io. I bambini sanno che al mondo esiste il buio. Mi è sempre piaciuta questa citazione da G. K. Chesterton:
“Non sono le fiabe a dare al bambino la sua prima idea di orco. Ciò che le fiabe gli danno è la prima idea chiara della possibile sconfitta dell’orco. Il bimbo ha conosciuto intimamente il drago fin da quando possiede l’immaginazione. Ciò che la fiaba gli offre è un san Giorgio che uccida il drago.”
Sulla paura, ricordo che da bambina ne avevo molta dei goblin e dei doppelgänger. Ero assillata da incubi, nei quali alcuni miei famigliari erano sostituiti da qualcuno di aspetto simile e io mi rendevo conto pian piano che non erano più loro. Se qualche personaggio di una serie o di un film aveva un gemello maligno, non riuscivo a guardare la TV, era un terrore completamente irrazionale. L’idea di un changeling, cioè di un bambino scambiato alla nascita, esercitava quindi un grande potere sulla mia immaginazione, potere di spaventarmi. Così, ho pensato: Vorrei far fronte alla mia paura di bambina e trasmetterla ad altre persone, perché sono gentile…! Allora, ho iniziato a leggere le antiche storie di changeling e le ho trovate davvero da brivido, ma non nel modo in cui mi sarei aspettata. La cosa più spaventosa era la reazione delle famiglie quando scoprivano di avere un changeling in mezzo a loro. La via tradizionale per liberarsene era la crudeltà. Questi bambini, a volte semplici neonati, erano gettati nel fuoco o nelle rapide di un fiume, erano picchiati con bastoni o abbandonati su un asino. Ho iniziato a dispiacermi per i changeling, cosa che non mi sarei mai aspettata e che ha completamente cambiato l’idea del genere di racconto che volevo scrivere. All’inizio, avevo pensato di scrivere di qualcuno che si accorgeva dello strano comportamento di un altro in famiglia e iniziava a temere che non fosse la stessa persona. Poi, ho pensato: non è molto più spaventoso sapere che c’è qualcosa che non va e non capire cos’è? E alla fine renderti conto che la cosa che non va, il mostro, sei tu?
I bambini hanno fame
Racconti spesso di fame: c’è quella metaforica, insopprimibile, di Faith in L’albero delle bugie, che è affamata di scienza e conoscenza, di ciò che le è proibito studiare; ma poi vieni allo scoperto con Triss di Una ragazza senza ricordi che è proprio affamata e “divora” fisicamente tutti questi diari scritti da se stessa e da altri, che la rende anche un personaggio meta-letterario in un certo senso, nel modo in cui posso cibarmi di parole leggendo un libro.
Capita a tutti di avere la sensazione o il timore di essere fatti di tanti elementi e parti e pezzi di altre persone, di cose che ci sono successe, cose che i genitori ci hanno insegnato, cose che abbiamo imparato a scuola, cose apprese dai nostri amici e dall’ambiente circostante, in sostanza di essere dei patchwork, dei collage. Una delle domande con cui la mia povera protagonista in Una ragazza senza ricordi deve convivere è: Se perdo tutti i pezzi che mi sono stati dati, resta qualcosa di me? Dopo che tutto se n’è andato, cosa sono io? Ovviamente, la mia risposta è che sì, c’è qualcosa, qualcosa che sei tu.
A pensarci bene, gli adolescenti stessi sono patchwork. Da ragazzi, attraversiamo tutti una fase dove sia la mente che il corpo ci sembrano indisciplinati e non li capiamo più, com’è giusto che sia. Questo ci spaventa.
In Una ragazza senza ricordi, inoltre, la fame si lega anche con il folclore. Nei racconti popolari, molti changeling sono descritti come affamatissimi. Il motivo è nascosto in un sottofondo storico molto oscuro. Alcuni pensano che le storie dei changeling fossero usate per giustificare l’infanticidio all’interno di famiglie molto povere, o con bambini mentalmente o fisicamente disabili, che non potevano lavorare, aiutare in casa e avevano bisogno di assistenza. Nel Medioevo, questi bambini che toglievano il cibo di bocca agli altri, non per colpa loro, rendevano più difficile la sopravvivenza di queste famiglie povere. Si crede allora che le storie di changeling abbiano dato a volte una giustificazione alle famiglie che abbandonavano o uccidevano un bambino, perché non era un vero bambino, era un changeling. La fame del changeling rappresenta allora tutto il nutrimento dato al bambino che è un peso per la famiglia, senza averne colpa. C’è spesso una storia molto buia dietro alle leggende popolari.
Nell’essere umano, sembri dire, c’è anche qualcosa che va oltre, istinti che non sembrano umani. Per esempio, durante l’incontro al Festivaletteratura di Mantova hai parlato a lungo di rabbia. I tuoi personaggi sono molto arrabbiati, furibondi nei confronti del mondo in cui vivono. Non a caso sono ragazze, molto consapevoli e appassionate.
Ritengo che rabbia e fame siano entrambi lati che donne e ragazze non sono incoraggiate a mostrare. Dovremmo, invece, mostrare la loro forza. Mi diverto moltissimo a lasciarle libere nei miei libri, farle correre, in parte perché sono ingorda di esperienze, di viaggi, di posti nuovi. Mi piace uscire dal guscio. Il problema dei gusci è che più stai dentro e più diventano piccoli, più ne esci e più diventano grandi. Se ogni tanto non mi sfido e non mi spavento un po’, divento irrequieta.
Illustrazioni di Kalina Muhova.