di Ilaria Tontardini
Perché spesso consideriamo l’albo illustrato uno strumento, adatto a raggiungere uno scopo o un livello più sofisticato di lettura? Da dove nasce questa concentrazione sulla funzionalità del libro per l’infanzia? Riflessioni a partire dall’esperienza dei corsi di formazione per insegnanti della scuola d’infanzia.
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Qualche settimana fa mi è capitato, durante un corso di formazione per insegnanti di nidi e scuole d’infanzia del comune di Bologna, di sentire in più di un’occasione le insegnanti e le educatrici affermare che molto spesso, nella lettura quotidiana in sezione, sono solite cambiare il testo degli albi o saltarne in alcuni casi intere parti.
Questa affermazione, all’interno di un aggiornamento sui criteri di valutazione per riconoscere le qualità specifiche dei picture book, mi è sembrata indice di un qualcosa nella pratica con bambine e bambini e nella relazione con il libro, su cui vale la pena indagare più a fondo.
Le motivazioni addotte sono state varie: il testo è noioso o troppo lungo, il testo è troppo complesso, di alcune parole bambine e bambini non conoscono il significato, la storia ha una bella trama ma è datata.
Tutte risposte che a mio parere sottendono spesso una convinzione di fondo: il libro, in particolare l’albo illustrato, è uno strumento, che al pari di qualsiasi altro utensile, va utilizzato per assolvere i compiti precisi per cui è stato creato. Curare la nostalgia, superare la rabbia, gestire le proprie emozioni, imparare a relazionarsi con gli altri…
Il libro serve. Non è l’idea di necessità a preoccupare, quanto quella di finalità.
Perché toglie al libro in sé la dignità di oggetto completo e pone l’albo in una condizione non letteraria, mettendo solo in evidenza la questione tematica. Viene spontaneo ribadire che chi crea buoni libri per l’infanzia non lo fa perché questi vengano “usati” come i cacciaviti o le forchette. L’assenza del riconoscimento di “letterarietà” rende gli albi e i loro testi un territorio molle, dove si possono operare tagli, aggiustamenti e correzioni. Non si vuole aprire una lamentela sulla scarsa considerazione della letteratura per l’infanzia, ma mettere ancora una volta in evidenza una confusione all’inizio di un processo.
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Due cose mi colpiscono: la prima è un misunderstanding sul linguaggio, ovvero il fatto che una insegnante pensi che, davanti a un libro scritto male, in cui la relazione fra testo e apparato iconografico non funziona, sia più semplice adattarlo invece di chiuderlo, sceglierne un altro che invece risponda a un criterio letterario diverso, senza bisogno di interventi.
La seconda è invece più sotterranea e ancora più meritevole di attenzione.
Viene spontaneo ribadire che chi crea buoni libri per l’infanzia non lo fa perché questi vengano “usati” come i cacciaviti o le forchette
È ben espressa dalle domande di Giovanna Zoboli in un post del 9 ottobre 2014 sul blog di Topipittori: “Possibile che quando si parla di libri per bambini il giudizio sia quasi invariabilmente vincolato a ragioni psicologiche e terapeutiche di fruibilità e così raramente a un discorso sulla cultura, l’educazione all’immagine, al segno, alla parola? Non è anche questo modo di vedere le cose che alla fine consegna l’idea di lettura in età infantile a pratica di puro intrattenimento con tutte le conseguenze del caso?”.
È quando si parla di bambini che si cade in fallo. Giustificando illustrazioni discutibili e testi mediocri, sentendo la necessità di abbassare il livello di scritture considerate “troppo alte”.
Perché ci concediamo certi atteggiamenti con questi libri e non con altri?
C’è una sorta di presunzione pedagogica nella scelta che si opera. Ricercare, analizzare, conoscere e poi, sì, selezionare gli albi per i propri bambini e bambine è un compito di genitori o insegnanti (da eseguire dando uguale rilievo a tutte le azioni della trafila). Non si mette in discussione il ruolo educativo dell’adulto, si solleva un dubbio sulle pratiche e sui nodi della “preoccupazione pedagogica”. Nell’ottica non solo della difesa del libro, ma di chi lo legge. Cioè bambine e bambini, soggetti dotati di gusti e preferenze e di sorprendente capacità di lettura e ascolto.
E ancora Zoboli trova le parole esatte per dirlo: “Sotto numerosi giudizi cova sempre l’idea che i libri, per essere definiti come adatti ai bambini, debbano piacere alla misteriosa categoria dei bambini, test inequivocabile, che ne sancisce la leggibilità tout court. Come se non ci fossero gusti, inclinazioni, interessi che fanno di ogni bambino un lettore diverso, come avviene per noi adulti che a ogni passo invochiamo, fino a destituirla di ogni senso, la famigerata bibliodiversità. Come se non esistesse una possibilità di discorso critico, al di là dell’età, come se provare a uscire dal cerchio mi piace/non mi piace dei bambini, fosse un sopruso inammissibile e antidemocratico. Come se non ci fosse un’idea di educazione.”
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In questo senso è interessante valutare la dicotomia fra testo e immagini: queste ultime sono difficilmente modificabili nell’atto di lettura a voce alta (salvo saltare parti del libro); le temiamo e al tempo stesso pensiamo di poterle comprenderle in automatico, generando tante distorsioni di prospettiva di cui altre volte abbiamo parlato. Invece sulla parola c’è un potere d’intervento, perché si può semplificare e a volte mutilare. Senza tenere in considerazione né il lavoro dell’autore o autrice, né il potenziale e il potere della parola. Il senso preciso, il suono, il gioco di rincorsa, il ritmo, la sospensione, l’essere piana, semplice o impervia.
E anche la difficoltà, come direbbe Peter Bichsel, di comprensione. Del significato di parole che brillano di bizzarria, o del senso ultimo di un testo che continua, con le figure che gli sono proprie, a lavorare nel lettore e nella lettrice. Togliere certe specificità è come annullare la possibilità del gusto.
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Erin E. Stead e Julie Fogliano ce lo ricordano nel loro albo Se vuoi vedere una balena (Babalibri): per vedere una balena è necessario avere calma, tempo a disposizione e molta pazienza.
Ciò di cui c’è bisogno, se si vuole vedere una balena, è in parte sovrapponibile a ciò di cui c’è bisogno quando ci si avvicina all’esperienza della lettura.
Nelle doppie pagine dell’albo ci viene narrato ciò che è necessario fare se si vuole vedere una balena. Un bambino, un cane, un uccellino sono i personaggi che ricorrono in ogni immagine e che identifichiamo subito come attori della vicenda, anche se non sono neppure nominati nel testo. Il bambino attende la balena, il cane lo accompagna nell’attesa, prestando il suo sguardo al tentativo di avvistamento. L’uccellino, invece, si muove nelle pagine, è necessario che gli occhi si spostino a cercarlo. La traduzione è efficace, la lettura a voce alta del testo è resa piacevole dalla varietà delle sonorità, dallo schioccare di t, rotolare di r, scoppiare di b, sibilare o sussurrare di s. Ritmi e ritorni sono scanditi dalle ripetizioni che ripropongono il desiderio di vedere la balena che si fa motore della narrazione.
Possibile che quando si parla di libri per bambini il giudizio sia quasi invariabilmente vincolato a ragioni psicologiche e terapeutiche di fruibilità e così raramente a un discorso sulla cultura, l’educazione all’immagine, al segno, alla parola?
La cadenza è scandita nelle illustrazioni dall’azzurro e il verde del mare o del cielo. La misura del guardare, l’andamento dello sguardo sulle pagine e sulle immagini è marcato dalle campiture che tornano pagina dopo pagina verdi o azzurre, tenui, di dimensioni sempre diverse, ma simili nel segno e nel senso.
Sono molti gli spazi bianchi che concorrono a rendere più evidenti le illustrazioni. Ci si muove nelle figure come nella poesia dove è il bianco alla fine dei versi e fra le strofe, che viene percepito come silenzio, a sottolineare la preziosità e la pregnanza delle parole.
Versi e illustrazioni qui si integrano, si valorizzano e si precisano vicendevolmente, articolando una narrazione interessante ed evidenziando, nell’accostamento, il potenziale poetico di versi e immagini.
L’albo si fa pratica dell’esercizio del leggere, del guardare, del rendersi soggetto di una lettura.
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Questo articolo è stato pubblicato sul n. 43 della rivista “Hamelin”, Visione laterale.
La presunzione pedagogica: ovvero del sostituirsi ai libri
di Ilaria Tontardini
Perché spesso consideriamo l’albo illustrato uno strumento, adatto a raggiungere uno scopo o un livello più sofisticato di lettura? Da dove nasce questa concentrazione sulla funzionalità del libro per l’infanzia? Riflessioni a partire dall’esperienza dei corsi di formazione per insegnanti della scuola d’infanzia.
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Qualche settimana fa mi è capitato, durante un corso di formazione per insegnanti di nidi e scuole d’infanzia del comune di Bologna, di sentire in più di un’occasione le insegnanti e le educatrici affermare che molto spesso, nella lettura quotidiana in sezione, sono solite cambiare il testo degli albi o saltarne in alcuni casi intere parti.
Questa affermazione, all’interno di un aggiornamento sui criteri di valutazione per riconoscere le qualità specifiche dei picture book, mi è sembrata indice di un qualcosa nella pratica con bambine e bambini e nella relazione con il libro, su cui vale la pena indagare più a fondo.
Le motivazioni addotte sono state varie: il testo è noioso o troppo lungo, il testo è troppo complesso, di alcune parole bambine e bambini non conoscono il significato, la storia ha una bella trama ma è datata.
Tutte risposte che a mio parere sottendono spesso una convinzione di fondo: il libro, in particolare l’albo illustrato, è uno strumento, che al pari di qualsiasi altro utensile, va utilizzato per assolvere i compiti precisi per cui è stato creato. Curare la nostalgia, superare la rabbia, gestire le proprie emozioni, imparare a relazionarsi con gli altri…
Il libro serve. Non è l’idea di necessità a preoccupare, quanto quella di finalità.
Perché toglie al libro in sé la dignità di oggetto completo e pone l’albo in una condizione non letteraria, mettendo solo in evidenza la questione tematica. Viene spontaneo ribadire che chi crea buoni libri per l’infanzia non lo fa perché questi vengano “usati” come i cacciaviti o le forchette. L’assenza del riconoscimento di “letterarietà” rende gli albi e i loro testi un territorio molle, dove si possono operare tagli, aggiustamenti e correzioni. Non si vuole aprire una lamentela sulla scarsa considerazione della letteratura per l’infanzia, ma mettere ancora una volta in evidenza una confusione all’inizio di un processo.
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Due cose mi colpiscono: la prima è un misunderstanding sul linguaggio, ovvero il fatto che una insegnante pensi che, davanti a un libro scritto male, in cui la relazione fra testo e apparato iconografico non funziona, sia più semplice adattarlo invece di chiuderlo, sceglierne un altro che invece risponda a un criterio letterario diverso, senza bisogno di interventi.
La seconda è invece più sotterranea e ancora più meritevole di attenzione.
Viene spontaneo ribadire che chi crea buoni libri per l’infanzia non lo fa perché questi vengano “usati” come i cacciaviti o le forchette
È ben espressa dalle domande di Giovanna Zoboli in un post del 9 ottobre 2014 sul blog di Topipittori: “Possibile che quando si parla di libri per bambini il giudizio sia quasi invariabilmente vincolato a ragioni psicologiche e terapeutiche di fruibilità e così raramente a un discorso sulla cultura, l’educazione all’immagine, al segno, alla parola? Non è anche questo modo di vedere le cose che alla fine consegna l’idea di lettura in età infantile a pratica di puro intrattenimento con tutte le conseguenze del caso?”.
È quando si parla di bambini che si cade in fallo. Giustificando illustrazioni discutibili e testi mediocri, sentendo la necessità di abbassare il livello di scritture considerate “troppo alte”.
Perché ci concediamo certi atteggiamenti con questi libri e non con altri?
C’è una sorta di presunzione pedagogica nella scelta che si opera. Ricercare, analizzare, conoscere e poi, sì, selezionare gli albi per i propri bambini e bambine è un compito di genitori o insegnanti (da eseguire dando uguale rilievo a tutte le azioni della trafila). Non si mette in discussione il ruolo educativo dell’adulto, si solleva un dubbio sulle pratiche e sui nodi della “preoccupazione pedagogica”. Nell’ottica non solo della difesa del libro, ma di chi lo legge. Cioè bambine e bambini, soggetti dotati di gusti e preferenze e di sorprendente capacità di lettura e ascolto.
E ancora Zoboli trova le parole esatte per dirlo: “Sotto numerosi giudizi cova sempre l’idea che i libri, per essere definiti come adatti ai bambini, debbano piacere alla misteriosa categoria dei bambini, test inequivocabile, che ne sancisce la leggibilità tout court. Come se non ci fossero gusti, inclinazioni, interessi che fanno di ogni bambino un lettore diverso, come avviene per noi adulti che a ogni passo invochiamo, fino a destituirla di ogni senso, la famigerata bibliodiversità. Come se non esistesse una possibilità di discorso critico, al di là dell’età, come se provare a uscire dal cerchio mi piace/non mi piace dei bambini, fosse un sopruso inammissibile e antidemocratico. Come se non ci fosse un’idea di educazione.”
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In questo senso è interessante valutare la dicotomia fra testo e immagini: queste ultime sono difficilmente modificabili nell’atto di lettura a voce alta (salvo saltare parti del libro); le temiamo e al tempo stesso pensiamo di poterle comprenderle in automatico, generando tante distorsioni di prospettiva di cui altre volte abbiamo parlato. Invece sulla parola c’è un potere d’intervento, perché si può semplificare e a volte mutilare. Senza tenere in considerazione né il lavoro dell’autore o autrice, né il potenziale e il potere della parola. Il senso preciso, il suono, il gioco di rincorsa, il ritmo, la sospensione, l’essere piana, semplice o impervia.
E anche la difficoltà, come direbbe Peter Bichsel, di comprensione. Del significato di parole che brillano di bizzarria, o del senso ultimo di un testo che continua, con le figure che gli sono proprie, a lavorare nel lettore e nella lettrice. Togliere certe specificità è come annullare la possibilità del gusto.
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Erin E. Stead e Julie Fogliano ce lo ricordano nel loro albo Se vuoi vedere una balena (Babalibri): per vedere una balena è necessario avere calma, tempo a disposizione e molta pazienza.
Ciò di cui c’è bisogno, se si vuole vedere una balena, è in parte sovrapponibile a ciò di cui c’è bisogno quando ci si avvicina all’esperienza della lettura.
Nelle doppie pagine dell’albo ci viene narrato ciò che è necessario fare se si vuole vedere una balena. Un bambino, un cane, un uccellino sono i personaggi che ricorrono in ogni immagine e che identifichiamo subito come attori della vicenda, anche se non sono neppure nominati nel testo. Il bambino attende la balena, il cane lo accompagna nell’attesa, prestando il suo sguardo al tentativo di avvistamento. L’uccellino, invece, si muove nelle pagine, è necessario che gli occhi si spostino a cercarlo. La traduzione è efficace, la lettura a voce alta del testo è resa piacevole dalla varietà delle sonorità, dallo schioccare di t, rotolare di r, scoppiare di b, sibilare o sussurrare di s. Ritmi e ritorni sono scanditi dalle ripetizioni che ripropongono il desiderio di vedere la balena che si fa motore della narrazione.
Possibile che quando si parla di libri per bambini il giudizio sia quasi invariabilmente vincolato a ragioni psicologiche e terapeutiche di fruibilità e così raramente a un discorso sulla cultura, l’educazione all’immagine, al segno, alla parola?
La cadenza è scandita nelle illustrazioni dall’azzurro e il verde del mare o del cielo. La misura del guardare, l’andamento dello sguardo sulle pagine e sulle immagini è marcato dalle campiture che tornano pagina dopo pagina verdi o azzurre, tenui, di dimensioni sempre diverse, ma simili nel segno e nel senso.
Sono molti gli spazi bianchi che concorrono a rendere più evidenti le illustrazioni. Ci si muove nelle figure come nella poesia dove è il bianco alla fine dei versi e fra le strofe, che viene percepito come silenzio, a sottolineare la preziosità e la pregnanza delle parole.
Versi e illustrazioni qui si integrano, si valorizzano e si precisano vicendevolmente, articolando una narrazione interessante ed evidenziando, nell’accostamento, il potenziale poetico di versi e immagini.
L’albo si fa pratica dell’esercizio del leggere, del guardare, del rendersi soggetto di una lettura.
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Questo articolo è stato pubblicato sul n. 43 della rivista “Hamelin”, Visione laterale.