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Viaggio attorno al mio studio

Viaggio attorno al mio studio

mino milani 1

di Mino Milani

[Questo articolo si trova su Oblò n.3 – Mino Milani]

 

Esiste al mondo qualcuno tanto infelice e tanto desolato 

da non avere nemmeno un buco in cui rintanarsi

 e nascondersi agli occhi altrui?”

Xavier de Maistre,

Viaggio attorno alla mia camera.

 

Ticino

Questa sorta di selvaggio ero io a quindici anni; e stavo spingendo su per il Ticino il mio barcé, la classica barca pavese a foglia di salice, piatta, lunga dai cinque ai sei metri, e con due forcole per i remi quando l’acqua si fa profonda. Mio padre me l’aveva regalato per la promozione al liceo: in realtà fu per la promozione alla vita. La mia piccola storia dovrebbe bastare a dimostrarlo, ma quando dico d’essere nato sul fiume i miei concittadini (e non solo quelli novantenni, come sono io ora), scuotono quasi tutti la testa, mi prendono nella migliore delle ipotesi per uno snob. E’ stato così, invece. Fu il Ticino a farmi conoscere la bellezza, l’avventura, il silenzio, forse qualche rischio, soprattutto la solitudine. E questa parola  mi rimanda sempre a quel verso di Rilke “solitudine mia beata e santa”, e a che cosa non si va a pensare, da ragazzi.

 

Naturalmente e forse dovrei dire “preferibilmente”, a Ticino si andava con una ragazza, che sedeva sul fondo, anzi vi si accoccolava…alt. Lasciatemi qualche riga su questo meraviglioso verbo, e meraviglioso perché mi fa  tornare alla mente Agnese, il mio primo spasimante e perduto amore. Allora, salvo rarissime eccezioni piuttosto discusse se non deplorate, le donne non indossavano pantaloni; e se non era stagione di costume, vestivano la gonna; lei aveva uno splendido modo di accoccolarsi, non già piegandosi sulle ginocchia (come vorrebbe il verbo) ma sedendo, sul fondo levando piegando e componendo le piegate in modo da  non lasciare il minimo, dico minimo spiraglio. Nemmeno da pensarci, insomma. Bei tempi.

 

Poi lei mi lasciò; spiace dirlo (non lo dico ora per vendicarmi) lo fece abbastanza vilmente, cancellandomi con la grazia d’una gomma da tre soldi che toglie di mezzo parole scritte a matita, sì, ma in perfetta calligrafia e sopratutto con il  cuore. Pensai, a consolarmi, che aveva fatto ben, io ero troppo giovane per lei. Piansi.  Scrive il grande Dylan Thomas : Ah le ali dei fanciulli!

 

Il generale

mino milani 3Ho qualche ricordo del Generale, cioè di Garibaldi, come tutti dicevano allora e come dico io, quasi fossi uno dei suoi soldati (l’avesse voluto il Cielo). Ho una bella lettera autografa, varie fotografie storiche, due bei ritratti e altre piccole cose. Mi consola pensare che sia vissuto. Quando mi ero messo a scrivere la sua biografia, trent’anni fa, avevo valutato anche il rischio di imbattermi in qualcosa che me lo ridimensionasse.

 

Trovai qualche errore militare, tattico ma non strategico, qualche sbaglio politico, qualche abbaglio sentimentale (del resto pagato caro), qualche altra piccola cosa da sette anni in purgatorio, come diceva la mia nonna Carlotta: mai nulla di doloso o di egoistico, mai nulla di misero. Piuttosto naturale che un bel po’ di italiani di oggi si siano dimenticati di lui; naturale ma vagamente nauseante che ne parlino male, anzi con livore senza sapere chi fosse, come abbia vissuto, che sogni avesse. Però ogni paese del mondo è pieno di poveracci che discutono di cose che non sanno e (questo mi è un po’ duro da mandar giù) diano il loro giudizio, assolutamente persuasi che sia giusto.

 

Bene, veniamo a lui, con parole non mie ( troppo belle per esserlo) ma di Giuseppe Cesare Abba, autore  di “ Noterelle di uno dei Mille”.

 

Tuona lontano il cannone. Bombardano Capua, e noi non vi siamo più. Gli artiglieri di Vittorio Emanuele non avranno gran che da fare, perché la guarnigione non aspetta che un motivo onesto per arrendersi. Già il Griziotti colonnello nostro, lo aveva detto: “Generale, lasciatemi lanciare due o tre bombe sulla cittadella, e s’arrenderà”.

“No, se un fanciullo, una donna, un vecchio morisse per una bomba lanciata dal nostro campo, non  avrei più pace!” disse Garibaldi. E Griziotti:”Ma i nostri giovani si consumano di febbri in questo assedio, ogni giorno si assottigliano, muoiono”. E Garibaldi a lui: “Ci siamo venuti anche a morire”. “Arriveranno i piemontesi, Generale, essi non avranno riguardi; con poche bombe faranno arrendersi la città, poi diranno che  tutto quello che facemmo sino ad ora non avrebbe contato nulla”. Garibaldi allora: “ Lasciate che dicano. Non siamo mica venuti per la gloria!

 

C’è un modo più bello per guadagnarsela?

 

Amanti della pace, del diritto, della giustizia, è forza nonostante concludere con l’assioma d’un generale americano: ‘La guerra es la verdadera vida de l’hombre’ ”: così nella prefazione alle sue Memorie, che narrano d’una vita cominciata veramente nel 1835, nell’America del Sud dove Garibaldi era fuggito, inseguito da una condanna a morte “come nemico della patria e dello Stato”, cioè del Regno di Sardegna. Fino a quel momento, era stato un giovane marinaio, inquieto e sognatore (“i miei amici dicevano che ero un poeta” avrebbe scritto): l’America lo plasmò per quello che era, un combattente e subito aggiungo: per la libertà dei popoli. Si possono eroicamente sostenere battaglie cattive e buone; lui fu per queste. Le vinse quasi tutte; e come spesso accade, tradizione e commozione in un certo senso trasformarono le sconfitte in  “non vittorie”, come è variamente accaduto anche per battaglie dell’ultima guerra mondiale e anche  di altre ben più recenti.

 

Considero un personale fortuna avere scritto e pubblicato, nel 1982, una sua biografia. Mi sono sentito preso, anzi trascinato con il Generale in un lunga avventura: battaglie terrestri e navali, prigionia, fuga,tortura, ferite che per altri sarebbero state fatali, seduzioni, amore vero, alti comandi, ancora ferite, rinuncia a una vita affermata, ritorno in Italia, umiliazioni, vittorie, riconoscimento del suo valore da parte del nemico, solo supersite tra centinaia di soldati, morte della moglie amata, esilio, altre guerre, conquista di un regno europeo, fama mondiale, mito, leggenda con il rifugio in un’isola rocciosa… Ho spesso pensato che, senza fare nomi, avessi raccontato quelle vicende a un editore, mi sarei sentito dire: “Senti, questa storia d’avventura sarà bella, avvincente e tutto quello che vuoi: ma la fantasia ha i suoi limiti. Un romanzo così non è credibile, un eroe così non è possibile. Ciao”.

 

Pugnale da guerra

 

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Ho tra i libri,  appese agli scaffali o incollate qua e là e insomma, dove càpita, un bel po’ di cose, in genere ricordi. A una sono specialmente affezionato  perché mi rammenta molti momenti insieme e diversi fra loro: giovinezza, guerra, pace, mortificazione, un po’ di vergogna, speranza. Tutte cose da ragazzo, e avevo allora diciassette anni, era giorno di maggio e di sole. Anno 1945: la guerra appena finita, almeno ufficialmente; si era sparato fino a pochi giorni prima, si sparava e ancora si moriva uccisi, ma almeno lontano da case; e in ogni modo non s’aveva più paura  dei bombardamenti e degli aerei che più o meno bassi volavano sopra la città.

 

Tra il ponte sul Ticino e la piazza Dante, nel lungo e vasto viale che prosegue poi per Milano, s’era venuto formando, nel giro di un quarto d’ora, qualcosa di inimmaginabile: una incredibile quantità di jeep (ma allora non sapevamo che si chiamassero così), una dietro l’altra in una colonna lunga più d’un chilometro. Aggiungo subito che nei cinque anni di guerra appena passati, le automobili in città, quelle militari comprese, erano state poche centinaia; si comprenderà quindi perché sull’altro lato della strada ci fosse una grande folla di gente stupefatta, incredula e silenziosa. Avevo diciassette anni, dunque, di cui, cinque trascorsi in guerra, lunghissimi, e con il ricordo della pace come una cosa ancora incerta.

 

A bordo delle jeep che, ad essere riconosciute dagli aerei,  avevano sul cofano grandi fogli di carta d’un brillante colore amaranto, v’erano soldati in assetto di guerra, molti giapponesi, o almeno tali sembravano; parlavano tranquillamente tra di loro, del tutto disinteressati a noi. Ogni tanto, una jeep o un dodge (camion, per noi)  discendeva o risaliva la fila, e noialtri pavesi sempre lì zitti a guardare. Dopo un po’ qualche soldato, lasciato il fucile, cominciò a scendere dalle jeep per sgranchire le gambe.

 

Io, per una volta stranamente solo e senza amici, ero in piazza della Minerva, proprio sotto l’ alto e bel monumento alla  dea della saggezza; e rimasi un poco allarmato, vedendo che un americano veniva avanti certo, incuriosito dalla statua, ma in ogni modo verso di me… O Dio, che cosa faccio? Nulla, cos’altro?

 

…E lui si fermò a pochi passi, indicò la statua, mi guardò dicendo anzi  chiedendomi qualcosa; e probabilmente rabbrividendo  dissi nel mio miserevole (be’, ma in fondo avevo un buon voto, sette) inglese: “It is the …the statua…”

Ya, statue…”

Risposi: “Yes,of Minerva…” già, ma forse loro la chiamavano…come?, ah ecco:  “Atene… Atena…”

Brontolò qualcosa, ma continuava a sorridere, poi disse “Fine”.

“She is the goddess of…” buon dio, come si dice saggezza, una roba del genere?… Mi toccai la testa: “…mind…intelligence…”

Ah. Good” poi: “Your name?”

“…Mino, Guglielmo…” tradussi: “William…Willy”.

Oh, Willy! My brother too, Willy. Fine!”

 

Qualche frase ancora, ma non ricordo alto che la mia emozione; venne poi una voce metallica, un altoparlante, un ordine; lui fece un cenno, a dire che doveva andare, poi: “Bye, Willy” e il gesto d’addio; si volse, due passi, si volse ancora verso di me, slacciandosi intanto il fodero con un pugnale che aveva alla cintura; me lo porse con un sorriso e se ne andò.

 

Un grosso dodge discese piano la colonna, e ad ogni jeep gettava un paio di grosse scatole di cartone, prese al volo: il rancio. I soldati cominciarono a mangiare. Non è che la nostra fosse una folla d’affamati, ma il silenzio s’approfondì.

 

Poco dopo qualcosa accadde; i motori vennero accesi, si partiva, e una quantità di quelle scatole veniva gettata a terra. Passò sulla folla di noi poveracci come una folata di vento. Tutti fermi e frementi, trattenuti da chissà cosa; ma ancora prima che fossero passate le ultime jeep, cominciarono la corsa, le grida e l’assalto, e per farla  breve compresi allora che cosa all’incirca fosse un saccheggio. Per questo più sopra ho scritto quelle parole, mortificazione, un po’ di vergogna, ma e vi ho aggiunto: speranza. La mia venne esaudita, e non ho più rivisto scene del genere.

 

Ma cancellai tutto scappando via e tornando in fretta a casa. Un pugnale da guerra, ragazzi. Me l’aveva regalato un soldato americano. Solo chi ha vissuto quei giorni può sapere davvero che cosa significasse questa parola per noi. Non pensavo che a quello…

 

…e mi venne in mente quanto mio padre m’aveva detto più volte. Che nella sua guerra, quella Grande, un soldato dei nostri che avesse ceduto una baionetta a qualcuno, eh, perbacco, avrebbe rischiato la fucilazione.

 

La scatoletta

 

Era, anzi, è: l’ho qui a portata di mano, una elegante scatoletta rossa, di saldo cartone, per gioielli e insomma cose più o meno preziose. Qualche mese prima di andarsene, Antonella, mia moglie  vi aveva messo un pezzo di alta bigiotteria, una bella spilla: “Se mi dovesse capitare qualcosa, questa la dai all’Anna Negri, sì”?

 

“E che cosa dovrebbe capitarti?”

“…così, non si sa mai“.

 

Era medico, lo sapeva. Fu questione di qualche mese, quella dannata malattia che sappiamo. Misi la scatoletta su un palchetto della libreria, proprio alle mie spalle. Ogni mattino, prima di cominciare il lavoro, non potevo evitare di guardarla, cercando di convincermi che tutto era stato già scritto chissà da quanto.

 

L’Anna Negri (so che l’articolo non serve, ma qui lo si usa) era, ed è, una salda signora intelligente, civile, gradevole; è stata lungo caposala nell’ospedale di qui, stimatissima da professore e primari. Venne da me dopo cinque o sei mesi, parlammo Antonella e di altre cose, poi le dissi: “Anna, ho questo per lei, mi girai, allungai la mano…

 

La scatoletta non c’era.

 

Ma certo, stupore; durò poco: non mi ero ricordato, dovevo averla messa nel cassetto della scrivania; dissi qualcosa come :” …un momento, Anna, scusi, è qui…”

 

Non era lì. Non era nemmeno in quei due o tre posti dove avrei potuto sistemarla. Meglio smetterla subito: “Scusi, sa?, non la trovo, non capisco, era una cosina per lei, e intanto mossi i libri del palchetto, sicurissimo di non trovarla. Chiesi ancora scusa, riprendemmo a parlare, sapevo benissimo d’aver fatto una figura da scemo, lei sorridendo m’assicurò che sono cose che succedono e alla fine se ne andò e io le dissi per l’ultima volta che mi dispiaceva,  mi scusasse non capivo come era potuto essere eccetera.

 

Non le avevo detto nessuna bugia: davvero non capivo come era potuto essere. Quando fui solo ripresi la ricerca. Quello fu solo l’inizio. La verità è che cercai in ogni angolo possibile, poi in quelli impossibili. Ripresi il giorno dopo e l’altro ancora, imponendomi alla fine di smetterla. Le scatolette di nessun colore svaniscono. Se l’hai messa là, e là è stata per sei mesi, semplice: qualcuno te l’ha rubata.

 

Semplice? Lo è davvero pensare che nel tuo studio, dove passi un giorno dopo l’altro e entrano solo i tuoi amici, si infili un tale che prende una scatoletta rossa e scappa? Se lo è, tutto è semplice. E allora? Ci sono altre cose da rubare, qui, vero? Senza dubbio. E allora?

 

Allora nulla. E però non tralasciai le ricerche, casuali però e non sistematiche come i primi giorni, persuadendomi infine, e tranquillamente che si fosse trattato d’uno dei soliti misteri. Così è, ma relegare senz’altro nel paranormale tutto quanto non riusciamo a spiegarci, mi pare sia una ritirata e nient’altro. Una quantità di cose paranormali, hanno prima o poi finito di esserlo e sono rientrare, per così dire, nei ranghi; un’altra quantità, invece, no.

 

Feci un altro regaluccio alla signora Negri.

 

Passò un anno, quasi; e  come sempre venne il felice e sereno giorno dei ragazzi di Hamelin, quando cioè quella splendida squadra di ragazze e ragazzi vengono da Bologna a trovarmi, a mangiare alle vecchia maniera formaggio, pane e salame e bere vino, roba buona, non scherziamo, dell’ Oltrepò pavese, volli aggiungere ai nostri discorsi un po’ di mistero, raccontai della scatoletta. Come la presero? Non so bene: come un mezzo per quietamente divertirli con un assurdo, o come una storia vera un po’ difficile da mandar giù, ma anche da rifiutare, perché non sono il tipo che inventa certe cose.

 

Quando se ne furono andati, tornai nello studio e vidi che, curiosando tra i libri, avevano fatto cadere a terra la fotografia di Faustino Savoldi, il grande neurologo e amico di molti anni non dimenticati; la raccolsi e la misi sulla mia scrivania, un bel tavolo di vecchia noce. Poi me andai, a mangiare un boccone da mia cognata Anna, che abita l’appartamento dirimpetto al mio. Quando tornai, la fotografia di Faustino era dove l’avevo messa, certo, posata sulla scatoletta rossa.

 

Boh, era sempre stata là, mi ha detto qualcuno. Già, là per un anno, in quell’angolo del tavolo sul quale mi piace appoggiare i piedi. Se era là, qualcuno ce l’avrà messa , no?, ha detto qualcun altro. Sì, ce l’avrò messa io mentre cenavo con mia cognata e i miei nipoti. Nascostamente mi sono alzato da tavola, in trance sono venuto nel mio studio, ho aperto il cassetto, ne ho tratto la scatoletta per metterla sulla scrivania e v’ho posato sopra la foto di Savoldi. Semplice, no?

 

S’è creata qui a Pavia, in ambiente universitario, l’ormai celebre CICAP, Centro italiano per il controllo degli avvenimenti paranormali, gente concreta, scettica e forse un po’ troppo positivista; telefonai ancora perplesso al suo presidente che mi chiese di mettere tutto per scritto. Così feci, e un paio di giorni dopo, lui mi comunicò il direttivo, s’era trovato d’accordo sul fatto che, alla mia età, non avevo nessuna intenzione di prenderli in giro; e che dopo aver esaminato la faccenda, era stato concorde nel metterla tra i problemi insoluti.

 

La scatoletta rossa è ancora al suo posto, come se nulla fosse stato. Le ho chiesto di spiegarmi che cosa le fosse accaduto. Non mi ha risposto. Privacy.

 

Scuola di quei tempi

 

E in quei tempi lontani non c’era solo il Ticino, e nemmeno solo la guerra. C’era anche (direi soprattutto) la scuola. Non dico che fosse come la famiglia; ma quella la davamo per scontata. Il papà. la mamma, il fratello maggiore, il minore (rompipalle, si capisce, ma che tristezza sarebbe stata, senza di loro): contava moltissimo, anzi era tutto: sopravvivenza quotidiana, casa, sicurezza, affetto. Oggi queste cose non vengono nemmeno immaginate da molti, e d’ogni età: beati loro e l’augurio di continuare così: senza guerre, voglio dire,  quindi senza le ricadute di essa in luoghi lontani dal fronte, come erano Pavia  e i nostri giovani cuori.

 

Professori quasi tutti severi, qualcuno severissimo. C’era per esempio, in ginnasio, una “signorina” (la parola prof era di là da venire) che, se ti vedeva al pomeriggio per la strada con una ragazza, il mattino dopo t’interrogava e ti faceva un mazzo così. Ce ne era anche qualcuno un po’ scemo, come in liceo quello di greco, avendo io sbagliato un risposta, “Ah” mi disse ammiccando “ma tu quindi hai un cognome che non va: Milani rimanda a Milano, che è una grande città: dovresti chiamarti Pavie, anzi, meglio Villanteri”, e questo era  il plurale di Villanterio, un paese della provincia. Tu pensa.

 

Ma con gli altri si stava benone. Simpaticissimo era il professor Zandrino: povero giovane, abitava fuori città, veniva a scuola in corriera;  un mattino di sole, un aereo s’abbassò a mitragliarla, e lo uccise con tutti gli altri viaggiatori.

 

La guerra, già. In classe d’inverno ci si stava con cappotto, guanti e berretto, dato che i termosifoni erano ben più freddi che tiepidi; la guerra che l’Italia stava perdendo, volevo dire, in classe si sentiva piuttosto poco: t’aspettava fuori, nel silenzio delle strade, sui volti della gente; e di notte nel buio delle strade con i lampioni spenti. Avevi appena chiuso gli occhi, certe volte, ed eccoti svegliato dalle sirene d’allarme, dal rombo lontano o vicino degli aeroplani che venivano a bombardare. Le prime volte ci si vestiva in fretta e si scendeva nel rifugio antiaereo, cioè nella cantina dove, se del caso, si sarebbe comodamente morti asfissiati o sepolti sotto le macerie. Presto dunque si prese ad andare in giardino o nel cortile; e quando bombardavano Milano, si restava in silenzio a guardare, a nord, quei bagliori rossi e ad ascoltare i cupi e lontani fragori delle bombe.

 

Tempi diversi, e in tutto. Anche nel cielo e nelle stagioni. Non ho nessuna intenzione  e nessuna preparazione per stare a discutere sulle cause e gli effetti del mutamento di clima; testimonio però che allora d’inverno nevicava, di primavera era uno splendore d’azzurro, di fioritura, di temporali, d’estate faceva caldo, c’erano le lucciole e meno zanzare, d’autunno venivano prima la pioggia e poi la nebbia, e andava benissimo così. Non si sbagliava.

 

Hiroo Onoda

Ho anche, incorniciata, la sovraccopertina d’un libro: il volto malinconico d’un soldato giapponese con la destra tesa nel saluto militare. E’ il tenente Hiroo Onoda, per il quale la seconda guerra mondiale durò fino al 1974, dopo cioè ventinove anni dalla sua effettiva conclusione. Il titolo del libro è “Non mi arrendo”.

 

Quando mio fratello venne a trovarmi mentre seguivo il corso per divenire ufficiale” scrisse “mi chiese se fossi pronto a morire per il mio paese. Gli risposi di sì. Rinnovai il giuramento di dare tutto me stesso alla Patria. Fu un giuramento solenne ed ero deciso ad onorarlo.

 

Lo onorò come la maggior parte dei soldati che affrontarono quella guerra, combattendola cioè come dovevano e potevano. Addestrato alla guerriglia, alla fine del 1944 seguì il suo reparto nelle Filippine, dove si pronunciava la controffensiva americana. Nel successivo febbraio, l’isola di Lubang (troppo piccola per apparire col suo nome nelle normali carte geografiche) nella quale si trovava cadde dopo un violentissimo attacco, cui egli sopravvisse con solo tre compagni riparando nella fitta giungla che ricopriva le colline. Tagliati fuori da ogni contatto, i quattro giapponesi non seppero più nulla della guerra, proprio come nessuno aveva saputo più nulla di loro. La notizia della loro presenza si ebbe solo nel 1949, quando uno dei quattro si fu consegnato alla forze filippine. Alcuni anni più tardi il governo giapponese avviò l’operazione di recupero degli altri tre, cominciando ad informarli, attraverso lanci aerei di messaggi, che la guerra era finita. Invano. Hiroo Onoda e i suoi due compagni,  rifiutarono di arrendersi e non abbandonarono la giungla: impossibile che il Giappone fosse stato sconfitto. Era solo un trucco per catturarli.

 

Passarono altri anni, vi furono scontri tra i fuggiaschi, contadini,e pattuglie di polizia; Onoda vide morire i compagni e rimase solo. Non credette nemmeno agli inviati di Tokio, nemmeno ai famigliari. Non si sarebbe arreso, a  meno che non gli fosse ordinata dal suo diretto comandante, il maggiore Taniguchi. Così passarono trent’anni.

 

Molti, e naturalmente non solo per un uomo nascosto nella giungla, ma anche per la Storia. Ferma, per lui, essa aveva naturalmente proseguito il suo corso inesorabile. Non c’è dubbio che Onoda sapesse che tutto era cambiato: lungo i sentieri dove avrebbe potuto trovarli, erano stati sistemati giornali e riviste illustrate che informavano degli avvenimenti recenti, del mondo in pace, dei profondi mutamenti in corso nella sua patria: lui aveva però sempre pensato che fossero trucchi. Quelle fotografie che mostravano un Giappone laborioso e ricco  erano false; o significavano che esso aveva vittoriosamente respinto gli Americani e continuava combattere, prospero e sicuro. Non si può non sospettare d’una ossessione guerriera, insinuatasi invincibile nella mente di Onoda, ma si potrebbe anche pensare che s’era ormai adattato o rassegnato alla vita che faceva.

 

Nel 1974, infine, il maggiore Taniguchi (non  più quello di una volta, si capisce, invecchiato, ingrassato, diciamo rappacificato) si recò a Lubang e fu condotto nella zona dove si teneva nascosto Onoda, che subito lo riconobbe e s’irrigidì sull’attenti. Seppe tutto ed ebbe l’ordine di seguirlo. Obbedì, lasciò il passato e tornò nel presente. Scoprì sbalordito d’essere un personaggio ormai celebre come “l’ultimo giapponese nella giungla” (chissà dove ce ne era ancora uno, ma non faceva notizia); venne fotografato, filmato, intervistato, portato di qua e di  là.

 

Non appena lo poté,  andò a vivere nell’America Meridionale, cercando di liberarsi dal Giappone, dalla vita che si trovava a fare e dai suoi ricordi. Ebbe fortuna,  si comprò una tenuta in Brasile, mise in piedi un’azienda agricola e per una dozzina d’anni visse tranquillo. Divenne ricco. E un giorno eccolo tornare a Lubang. Il suo però non era il ritorno del reduce al campo di battaglia, non era là per rivivere o ricordare.

 

In nulla l’isola era cambiata ma, pensò forse scendendo dalla nave, ma i suoi abitanti? Come lui, era ancora certamente vivo qualcuno di essi che rammentava gli anni della guerra, e quindi la storia dell’ultimo soldato giapponese: la sua storia. E se fosse stato riconosciuto?L’avrebbero accolto in silenzio o con rabbia, o addirittura con il bastone? Forse  sarebbe stato prudente fingere d’essere un turista qualsiasi…Ma lui non poteva farlo. E un turista non va  in un posto come Lubang con in tasca 10.000 dollari, una ben grossa somma, per quei tempi.

 

Chiese coraggiosamente di vedere i capi dell’isola e disse loro chi era. L’accolsero senza rancore. Con umiltà consegnò i diecimila dollari a riparazione di quanto aveva fatto, o forse  dovuto fare. Si commossero.

 

Tornò in Giappone, ormai in grado di vivere tranquillamente, cosa che di nuovo gli risultò impossibile. Aprì allora una Scuola di sopravvivenza, insegnando ai giovani ciò che pochi avevano imparato a fare come lui. Chiuse la vita nel gennaio 2014, a novantun anni. Chi può escludere che il suo spirito sia tornato a Lubang?

 

Ma perché, poi, ho incorniciato la sua foto e la tengo tra i miei libri? Non ho dubbi: per il titolo del suo libro. Fosse stato diverso, o solo quello originale (“Dietro le linee, trenta anni di guerra” o anche quello della traduzione inglese “Niente resa”, l’avrei lasciato probabilmente perdere; ma quelle tre parole “Non mi arrendo”, dette così, con forza, con semplicità, mi avevano colpito. Non era solo un motto di guerra, quello, o di un soldato nascosto nella giungla: era buono per chiunque avesse deciso di prendersi sul serio. Non sono mai stato in una giungla né in una guerra, se non in quelle della vita; più d’una volta però mi sono trovato senza forza e coraggio di compiere il mio dovere, e al punto di lasciar perdere tutto. Poi mi sono detto di no, e ce l’ho fatta. Non mi arrendo, ragazzi.

 

Libri

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Non parlo dei libri di scuola, quelli sono la normalità, vale a dire la necessità (sì, sento dire, ma per essere la norma, costano troppo. Sarà vero, anzi è vero, però durano a lungo, ti servono, e in fin troppi casi sono gli unici che entrano in casa e scusate il bisticcio di parole; scusate anche se aggiungo che una dozzina di pizze, costando più o meno lo stesso, ti servono sì e no,  e non durano affatto); parlo degli altri libri, che con la Scuola hanno direttamente poco o nulla in comune. Di quelli cioè che un bel po’, o molto o moltissimo hanno in comune con la vita. Ne ho un bel po’, e ne sono felice; il mio programma è di continuare a comprarne ancora, consultarli e leggeri. Sono fiero della mia biblioteca.

 

Sentite questa. Viene da me una bella signorina che vedendo gli scaffali pieni mi domanda burbanzosamente (simpatico ed efficace, questo aggettivo, è la prima volta che lo uso, lo farò più spesso):

“Perché tutti ‘sti libri? Crede che le procurino la salute?

“Quella mentale, sì”.

“La fanno ricco?”

“Se si parla di quattrini, no. Mi costano, se mai”.

“Ah, dunque i libri sono per ricchi?”

“Ci sono libri di tutti i prezzi. E buone librerie pubbliche con letture gratis. Quanto ai ricchi,comprano libri come gli altri”.

“La fanno bello?”

“No, ma tengono lontano la faccia da scemo”.

“Le procurano lavoro?”

“A me l’hanno procurato. Anche ai tipografi, ai librai e agli editori”.

“E mi dica, la fanno sexy?”

Domanda un po’ scema, detta con un sorriso di sfida. Che cosa non sono le donne! Meravigliose. Però ero stanco dell’interrogatorio.

E ho risposto: “Sì”.